Un grande centravanti per la Liberia
George Weah presidente Monrovia in festa per la vittoria al ballottaggio dell'ex calciatore, simbolo di riscatto (esagerato) per i più poveri
George Weah presidente Monrovia in festa per la vittoria al ballottaggio dell'ex calciatore, simbolo di riscatto (esagerato) per i più poveri
Successione glamour sulla poltrona presidenziale della Liberia, che passa dal premio Nobel Ellen Johnson Sirleaf, prima donna a diventare presidente in Africa, all’ex centravanti George Weah, primo e ultimo africano ad essere insignito del Pallone d’oro, nel 1995, e da ieri primo capo di stato al mondo con un passato da calciatore professionista.
IN TEMA DI PRIMATI, dovrebbe spiccare anche quello che riguarda il Paese, soprattutto dopo il l’ammissione della sconfitta da parte dell’avversario di Weah, l’attuale vicepresidente Joseph Boakai: di fatto è la prima transizione pacifica che la Liberia si concede dal 1944, un paio di guerre civili fa.
Weah aveva già chiuso avanti il primo turno, lo scorso 10 ottobre, con quasi il 40%. Il ballottaggio, rimandato dopo il ricorso per presunti brogli presentato dal terzo classificato Charles Brumskine, si è svolto infine il 26 dicembre. Poco più di 2 milioni di votanti chiamati alle urne, partecipazione al 56%, Weah si è imposto con il 61,5% su Boakai. La cui sconfitta è anche quella del Partito dell’Unità, attualmente al governo.
SCONTATI I CORI DA STADIO nelle strade di Monrovia e davanti al quartier generale della coalizione che ha sostenuto Weah, il Congress for Democratic Change. Niente in confronto alla festa esplosa a Gibraltar, il sobborgo modesto in cui il neo-presidente è cresciuto, 14 in una stanza ecc., ovviamente prendendo a calci un pallone. Visto dove e come è arrivato, si capisce perché qui sia diventato una leggenda vivente, intoccabile, un simbolo di riscatto esagerato.
TESTARDO come quando s’involava negli spazi vuoti della metà campo avversaria puntando la porta da lontano, all’unico top player internazionale che abbia vestito la maglia della nazionale liberiana, oltre che quelle di Milan e Paris Saint-Germain stavolta sono stati necessari tre assalti “elettorali” per buttarla dentro. L’inesperienza politica gli era stata in passato fatale, di fronte a una veterana come Ellen Johnson Sirleaf, che in questi anni a parte mantenere la pace ha fatto ben poco, niente contro una piaga storica come la corruzione e quasi niente per un’emergenza drammatica come quella dell’epidemia di Ebola, che qui ha fatto strage.
NEL FRATTEMPO WEAH ha lavorato duro e si è fatto trovare pronto, come dicono gli allenatori: tre anni fa è stato eletto al senato, dopo aver sconfitto nel collegio della capitale proprio il figlio della presidente.Ora la sua elezione scalda i cuori anche nelle redazioni dei giornali sportivi e in generale nel mondo del calcio, non solo tra la sua gente. «Abbiamo un presidente», il primo a dirlo è stato un intempestivo Arsène Wenger, l’allenatore che lo ebbe a Parigi e che Weah ha sempre definito una sorta di “padre”, sempre al suo fianco nella battaglia contro il razzismo nel calcio: forse male informato dal suo ufficio stampa, lo aveva decretato vincitore già al primo turno.
Altra fonte d’ispirazione dichiarata è, ovviamente, il presidentissimo Silvio Berlusconi. Forse più come “personaggio politico” che per le sue politiche. Con Weah presidente riprende quota l’idea di una Milanello scuola quadri berlusconiana. Ma ad esclusione del solo Kakha Kaladze in Georgia, le discese in campo di altri ex rossoneri, da Galli a Shevchenko, si sono rivelate dei flop.
ORA CI SI INTERROGA sul change che Weah ha promesso alla Liberia – Stato “pianificato” dall’American Colonization Society in un territorio dell’Africa occidentale che diventa meta del “ritorno” degli schiavi afroamericani affrancati a partire dal 1822 – una volta presidente: prima di tutto lotta dura a corruzione e povertà, poi vuole occuparsi di giovani e di sanità, di scuole e di strade e persino di ambiente, con un programma contro l’erosione della costa. Usa spesso la parola comunità, Weah.
L’ombra più insidiosa sul suo mandato è costituita dalla presunta «impresentabilità» di quella che sarà la sua vice, Jewel Howard-Taylor, ex moglie di Charles Taylor, condannato a 50 anni dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità commessi durante la guerra civile che tra il 1989 e il 2003 ha fatto oltre 250mila morti, con incorporato il dramma dei bambini-soldato.
NELLA COSTITUZIONE di questo paese maledetto dai diamanti c’è ancora scritto che la missione è «fornire una casa ai bambini d’Africa dispersi e oppressi e di rigenerare e schiarire questo continente oscurato, perciò nessuno, eccetto i neri, possono diventare cittadini di questa repubblica». Un nobile intento di protezione che poi scade – soprattutto a rileggerlo oggi – nel diritto di cittadinanza su base razziale.
Staremo a vedere se Weah d’ora in poi giocherà nella squadra di Mandela – che lo definì «orgoglio dell’Africa – o in quella di Berlusconi.
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