Dopo il primo turno delle elezioni presidenziali in Francia un refolo di vento sembra circolare nella politica italiana: il potere d’acquisto dei salari bloccati da una trentina d’anni. Dopo i timidi balbettamenti ascoltati nelle audizioni sul Documento di Economia e Finanza (Def), in cui il governo ha confermato di non avere intenzione di stanziare risorse aggiuntive superiori agli annunciati 5 miliardi di euro, ieri c’è stato un incontro tra il Pd e Cgil, Cisl e Uil.

La conclusione è stata lapalissiana: bisogna dare priorità ai salari e al potere d’acquisto. Dopo Pasqua sembra che il Pd abbia informato i sindacati dell’intenzione di presentare una proposta sul caro-prezzi. «Per noi – ha detto il segretario Enrico Letta – adesso la priorità massima è intervenire sui salari dei laboratori e sul potere d’acquisto delle famiglie. Promuoveremo nel governo tutte le scelte necessarie per impedire la terza recessione in poco più di un decennio». L’iniziativa giungerebbe dopo che l’esecutivo ha stanziato una quindicina di miliardi complessivi che non sono ritenuti sufficienti da nessuno.

Al tavolo della riunione di ieri al Nazareno è stato ripetuto il mantra del momento: «scostamento di bilancio». «Anche il Pd pensa sia necessario arrivarci e si aumentino le risorse su cui contare» ha confermato il segretario della Cgil Maurizio Landini. Quello che si teme è il ritorno di una crisi che tutti hanno dato per risolta prima dell’inizio della guerra russa in Ucraina il 24 febbraio mentre, invece, non è mai scomparsa. La «ripresa» è sempre stata un rimbalzo tecnico dopo il crollo colossale a meno 8,9% del Pil. Davanti a un simile tragico errore di prospettiva, e con l’inflazione crescente (acquisita per il 2022 al 5,3 per cento ha detto ieri l’Istat) eccoci alla casella di partenza: i salari. Sono passati solo quattro mesi dallo sciopero generale di Cgil e Uil, quando l’aumento di salari e pensioni erano una delle rivendicazioni. Lo sciopero fu attaccato ferocemente dai media e dai partiti del Draghistan che allora sembrava infallibile. Da allora il mondo è cambiato, ma non ancora le convinzioni macro-economiche dello staff del presidente del Consiglio: «L’attenzione alla spesa deve restare alta, perché non si può compromettere la crescita futura» ha avvertito il ministro dell’economia Daniele Franco davanti alle commissioni bilancio di Camera e Senato in un’audizione sul Def l’altro ieri. La legge di bilancio 2022, in attesa della famosa «crescita» e dei miracolosi effetti del «Pnrr», ha tirato una linea sull’uso «espansivo» del bilancio praticato nei due anni precedenti. Alcune stime hanno calcolato un indebitamento supplementare di quasi 160 miliardi nel 2020 e di 140 nel 2021.

La contraddizione che sta facendo rabbrividire la politica italiana, fino ad ora concentrata sul bellicismo e sulla letargia per quanto riguarda ogni aspetto strutturale della crisi, può essere riassunta così: mentre si aspetta la crescita, quest’ultima è già passata in poche settimane da 4,7% al 2,3% del Pil. E il crollo potrebbe continuare. A contribuire a scuotere questa politica congelata dall’incertezza, ma le speranze sono davvero poche, potrebbe servire la «bomba» che ha lanciato ieri la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen che si è detta «preoccupata perché la recessione potrebbe colpire l’Europa» e non gli Stati Uniti. Una frase che dovrebbe chiarire definitivamente la posta in gioco in questo secondo tempo della crisi economica.

Oggi sarà un altro giorno di tensione. È atteso un pronunciamento della Banca Centrale Europea (Bce) messa all’angolo da un paradosso: l’inflazione (7,5% a marzo) potrebbe danneggiare i consumi e la crescita; per stimolare la crescita potrebbe spingere sull’espansione monetaria; ma così alimenterebbe l’inflazione colpendo la crescita. Le politiche monetarie che hanno reso famoso Draghi sembrano oggi armi spuntate mentre le politiche di bilancio degli Stati non hanno le risorse sufficienti.