Dalle urne di Udine esce una conferma: se si votasse solo nelle città sopra i 50mila abitanti il centrosinistra sarebbe padrone del Paese, anche nel profondo Nord, da Varese a Verona fino al Friuli. Ma così non è.

L’entusiasmo di Schlein e dei big Pd dopo il successo del neosindaco De Toni non è incomprensibile: dopo l’en plein del governatore leghista Fedriga due settimane fa, la vittoria non era prevista, anche perché la città era governata dalla Lega e Salvini era andato ben 4 volte a Udine per sostenere il suo candidato Fontanini. Ma come la batosta delle regionali non era responsabilità di Schlein, neppure questo successo può essere considerato come il segnale di un’inversione di tendenza.

Semmai come una conferma della capacità del centrosinistra, da Trieste in giù, di conservare un buon radicamento territoriale, di saper scegliere buoni candidati e di saper costruire alleanze vaste e plurali nei comuni. È stato così fin dall’introduzione dell’elezione diretta del sindaco nel 1993, compresa la scorsa primavera-estate, quando il Pd di Letta espugnò Verona e si illuse -ancora una volta – di avere il vento in poppa anche a livello nazionale.

Anche questa volta pensare di esportare il modello Udine sarebbe un’illusione. Il Pd era alleato con sinistra e verdi e con l’ex terzo polo, e al ballottaggio si è unito anche il M5S. Uno schema, quello dell’ex campo largo, che evidentemente non può funzionare a livello nazionale. Conta molto di più, semmai, la capacità di intercettare mondi civici, extrapartito, persone culturalmente di centrosinistra ma che si sono rifugiate nel disimpegno e nell’astensionismo.

Da questo punto si può dire che ci sia stato un effetto Schlein: anche a Udine il suo comizio prima delle regionali aveva registrato un forte successo, con centinaia di persone rimaste fuori dal teatro. Questa capacità di riattivare l’interesse dei delusi, e di parlare ai giovani che non si sono mai affacciati alla politica, resta la carta più forte nelle mani della neosegretaria. Una capacità di suscitare attenzione che, come si è visto già alle primarie, funziona in tutta Italia, soprattutto quando parla di lavoro e di ambiente. Poi certo, un’alleanza con verdi-sinistra e M5S prima o poi dovrà realizzarsi, e magari anche con una gamba più moderata depurata dalle scorie del renzismo.

Ma sbagliano quei dirigenti del Pd che ieri sera gridavano «uniti si vince», come se bastasse ammassare tutto quello che è contro Meloni e Salvini per diventare competitivi. Questo schema può funzionare nelle città, dove il gap con il fascioleghismo è più piccolo. Ma non funziona a livello nazionale. O meglio: non basta. Perché resta chiaro che, di fronte a questa destra, Pd, sinistra e M5s non possono più permettersi divisioni, dai municipi fino alle elezioni nazionali.

La buona notizia è che, a dieci mesi dal successo di Verona e nel mezzo di un annus horribilis, il centrosinistra dà un segnale di esistenza in vita in una terra non facile. Un bel segnale anche per la destra che trabocca hybris e fame di potere: non c’è nulla di scontato, il consenso è fluttuante e mai consegnato una volta per tutte. Soprattutto a livello comunale, dove le persone e la loro credibilità contano ancora molto.

Guai dunque a riprendere il motto di Carlo Rosselli del 1936, «Oggi in Spagna, domani in Italia», tramutandolo in un provinciale «la sinistra riparta da Udine». Ma di questi tempi, un segnale di esistenza in vita non è da buttare via.