Un anno disobbediente al colpo di stato birmano
Myanmar Dal fronte dell'opposizione nati un governo alternativo, un altro parlamento e forze di autodifesa. Le grandi aziende straniere hanno lasciato il paese su spinta degli attivisti e nel silenzio dei governi. Mentre sale a 1.500 il numero delle vittime civili e oltre 20mila gli arresti
Myanmar Dal fronte dell'opposizione nati un governo alternativo, un altro parlamento e forze di autodifesa. Le grandi aziende straniere hanno lasciato il paese su spinta degli attivisti e nel silenzio dei governi. Mentre sale a 1.500 il numero delle vittime civili e oltre 20mila gli arresti
«Alle 8 di ieri sera è scattato il coprifuoco nel Paese delle pagode che inizia la prima settimana di febbraio sotto lo stato di emergenza. Alle 4 del mattino di ieri i militari birmani sono usciti dalle baracche con mezzi blindati e carri armati che già da settimana scorsa avevano iniziato a presidiare l’aeroporto, la zona settentrionale di Yangon e soprattutto la capitale Naypyidaw, dove ieri si sarebbe dovuto tenere l’insediamento ufficiale del nuovo Parlamento uscito dal voto dell’8 novembre. Proprio quel voto, che aveva consegnato ad Aung San Suu Kyi una vittoria schiacciante non è andato giù agli uomini in divisa che hanno deciso per il colpo di stato».
Scrivevamo così, un anno fa, dell’inizio di una nuova-vecchia era birmana. Non sapevamo allora con quanta brutalità i militari golpisti avrebbero represso quella che all’inizio sembrava una timida resistenza fatta di concerti di pentole percosse sui balconi, al riparo dell’oscurità notturna.
Ma non sapevamo nemmeno, e con noi i militari, quanto tenace potesse diventare quel Movimento di disobbedienza civile, inizialmente completamente pacifico. Ora trasformatosi nell’avanguardia di un esercito armato.
A un anno dal golpe del primo febbraio, la giunta di Min Aung Hlaing è isolata e in difficoltà. Il movimento di disobbedienza continua a funzionare con scioperi e astensioni dal lavoro, boicottaggi, piccoli e grandi scontri, attentati incendiari, omicidi mirati. La popolazione sembra nutrirsi di una forza morale che le fa sopportare, oltre al dolore, gli arresti, la morte, persino la fame.
Le forze dell’opposizione si sono organizzate: in aprile hanno formato un governo esecutivo di unità nazionale (Nug) che a sua volta lavora in un quadro legislativo composto da un parlamento a interim (Committee Representing Pyidaungsu Hluttaw) e da un National Unity Consultative Council (Nucc) che include partiti politici ed eserciti etnici (Ethnic Armed Organisations/Eao), i movimenti di disobbedienza civile e organizzazioni della società civile.
Sono istituzioni dominate dalla Lega di Aung San Suu Kyi che però stanno tentando di rompere l’antica diffidenza verso la comunità bamar per arrivare alla formulazione non di una nuova Unione birmana, ma di uno Stato federale, primo nemico di Tatmadaw, l’esercito golpista.
Lanciato il 16 novembre il Nucc conta per ora su 28 entità. Poche: delle decine di Eao, non arrivano a dieci quelle che hanno aderito anche se vi sono gruppi importanti come il Karen National Union (Knu), il Karenni National Progressive Party (Knpp) e il Chin National Front (Cnf).
Se il fronte militare non è compatto, quello del governo appare più solido. Organizza conferenze stampa, coordina la diaspora, raccoglie informazioni, fa trapelare nelle sedi diplomatiche le verità nascoste dalla giunta.
In questo lavoro è sostenuto, oltreché dal movimento locale, anche da un’organizzazione capillare della diaspora nel mondo, che ha trovato in diversi casi il sostegno di attivisti ma anche sacerdoti e suore cattoliche (specie in Italia), monaci buddisti e gruppi cristiani.
Ed effettivamente, si potrebbe ben dire che è stato proprio questo movimento diffuso dal basso a ottenere risultati. Più delle spinte sanzionatorie europee e americane, tardive, lente e senza verifica.
Prima TotalEnergies, poi Chevron Corp, poi l’australiana Woodside Petroleum, nel giro di pochi giorni hanno lasciato il Myanmar e il suo succulento mercato energetico controllato dal colosso statale Myanma Oil and Gas Enterprise (Moge). Ma non se ne sarebbero andate da sole se non fossero entrate nel mirino degli attivisti.
L’Italia si è salvata, ben prima degli altri colossi che ci hanno messo un anno, perché Eni ha chiuso subito la partita, una rapidità di cui le va dato atto. Ma altri buchi neri del Belpaese rimangono; nel settore bancario, dell’import/export, nella vendita di logistica militare.
Intanto quella birmana resta una tragica stagione che quest’anno si chiude con un bilancio pesantissimo: 1.500 morti tra i civili (numeri per difetto perché non includono i militari di Tatmadaw e delle Eao) e quasi 12mila arresti. Bilancio incorniciato da una diplomazia in stallo dopo che l’unica mediazione vera massa in campo, quella del Gruppo Asean, non è riuscita a fare nessun passo avanti.
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