«Ma Rıhna Nehna Hon»: non ce ne siamo andati, siamo qui. Domenica 6 agosto, a sei mesi dal sisma che ha devastato gran parte della Turchia sudorientale, e in particolare la città di Antiochia, una marcia di un centinaio di persone si è incamminata lungo la strada che dal villaggio di Dikmece scende verso la città, tra campi di grano e uliveti.

I manifestanti, abitanti del paese e attivisti, brandivano ramoscelli di ulivo, basilico e alloro, scandendo lo slogan nel dialetto arabo locale. Non si tratta solo di una commemorazione: è una protesta. I terreni sui pendii ai due lati della strada sono stati espropriati d’urgenza ad aprile, senza possibilità di ricorso.

Toki, l’Amministrazione per l’Edilizia di Massa controllata direttamente da Ankara, vi pianifica un quartiere satellite di 590 ettari. Il 90% dei terreni agricoli degli abitanti di Dikmece, che vivono principalmente di agricoltura, verrà cementificato. Le prime scavatrici, scortate dalla gendarmeria, sono arrivate il 31 luglio.

GLI ABITANTI e i solidali accorsi a fermare le ruspe sono stati dispersi violentemente dalle forze dell’ordine con idranti ad acqua compressa e lacrimogeni. I macchinari, che all’indomani del terremoto avrebbero potuto salvare vite, dicono i manifestanti, compaiono solo ora, per distruggere i campi.

E mentre la crisi idrica post-terremoto obbliga gli abitanti delle nuove città di container e tendopoli a ore di fila per l’acqua, gli idranti della polizia ne dispongono in abbondanza.

Da caso locale, la resistenza di Dikmece sta ottenendo visibilità a livello nazionale e sostegno da partiti di opposizione e dalla società civile. Ma quest’interessamento è giunto «solo dopo che ci hanno preso a botte», racconta Aysel, una signora sulla sessantina attiva in prima persona nella campagna.

Assemblea cittadina a Dikmece (foto di Dikmece Direniyor)

I rappresentanti di Dikmece sono stati ricevuti all’Assemblea nazionale, insieme agli attivisti della foresta di Akbelen, sull’Egeo, e del monte Cudi, nel sud-est curdo. Hüseyin Yayıman, deputato dell’Akp (il partito di governo) per la provincia di Hatay, ha promesso l’istituzione di un comitato apposito e l’alt agli scavi. Ma i lavori non si sono mai fermati.

Dal crinale dove è stato organizzato un presidio permanente, si scorgono i macchinari al lavoro sul fondovalle e i blindati della polizia a presidiare i sentieri di accesso. Il 15 agosto è comparso un primo container, il giorno dopo erano già dieci. Il timore degli abitanti è che le forze dell’ordine stiano allestendo un presidio fisso: a quel punto, dicono, non basteranno neanche mille persone a mandarli via.

Mustafa Özçelik e Serkan Koç, rappresentanti delle Camere degli Architetti e dei Pianificatori di Hatay, sottolineano come il governo e Toki operino al di fuori di qualsiasi piano regolatore, mentre il piano di ricostruzione, affidato all’architetto Bünyamin Derman, è ancora in via di definizione.

Senza una riflessione pubblica sul futuro dei distretti centrali, per circa l’85% distrutti o pesantemente danneggiati, si va concretizzando un’espansione urbana verso nord su aree di valore paesaggistico e agricolo, già oggetto di cementificazione incontrollata: oltre a Dikmece, il decreto di aprile indica numerose altre aree da espropriare tra la statale per Iskenderun e la montagna.

UN’URBANIZZAZIONE che avanza a colpi di «fatti compiuti», scavalcando autorità locali (spesso conniventi) e procedure urbanistiche, senza tener conto dell’opposizione della cittadinanza e degli ordini professionali.

La deputata dello Yesil Sol Parti, Tülay Hatimogulları, ha denunciato in parlamento che i piani di sviluppo si basano su analisi geologiche datate, antecedenti al terremoto.

I campi si estendono su terreni argillosi e molti abitanti fanno notare come verso il crinale roccioso, dove i terreni sarebbero più solidi, si estendano vaste aree di proprietà pubblica che potrebbero essere edificate, anche se significherebbe urbanizzare aree ancora più distanti dalla città.

AD AGGIUNGERE una componente etnico-settaria al conflitto, le aree designate per l’esproprio e l’insediamento di decine di migliaia di abitanti sono abitate dalla minoranza araba alawita, che tradizionalmente sostiene l’attuale partito di opposizione.

Sezgin Ertas, membro del Partito della Libertà Sociale (Töp) attivo nella mobilitazione, rimarca come a nord di Dikmece il governo preveda espropri a Kuzeytepe, Üçgedik, Karaali, Anayazı e Alazi, Kuzeytepe e Anayazı, villaggi alawiti, per poi aggirare l’area di Alahan, territorio sunnita generalmente pro-Akp, e proseguire con gli espropri nell’area a maggioranza alawita di Serinyol.

La convinzione degli abitanti e degli attivisti è che l’urbanizzazione di Dikmece e dell’intero quadrante nord nasconda un piano di ingegneria demografica. In un territorio di frontiera dove le relazioni tra etnie e gruppi confessionali si reggono storicamente su un fragile equilibrio, il terremoto offre allo stato l’opportunità di intensificare le proprie politiche assimilazioniste.

La mancata assistenza statale post-terremoto nell’Hatay viene spesso interpretata come deliberata politica di spopolamento. È in questo contesto che lo slogan «Ma Rıhna Nehna Hon» acquisisce valenza particolare, saldando la resistenza di Dikmece a quella di tutte le comunità di Antakya in lotta per il diritto ad abitare i propri territori contro l’alleanza tra stato turco-sunnita e capitalismo del disastro.

OLTRE ALLA FORZA bruta, l’amministrazione sfrutta l’opacità burocratica per ostacolare la mobilitazione popolare. Ertas spiega che in seguito al decreto, in mancanza di annunci chiari, erano in pochi a credere che il governo avrebbe messo mano alle loro proprietà.

L’allarme ha iniziato a diffondersi con le voci dal vicino villaggio di Gülderen, dove sono già state gettate le fondamenta del nuovo ospedale civico (quello inaugurato solo tre anni fa è stato danneggiato dal sisma).

A chi organizzava assemblee informative, il capo-villaggio eletto invitava a non creare tensioni inutili. Tuttora, la comunità è spaccata tra chi spera di negoziare attraverso i canali istituzionali e chi sostiene l’azione diretta.

Ma poi sono comparsi i tecnici del catasto, scortati dalla jandarma, a rilevare i terreni. Sul gruppo Whatsapp «Dikmece Direniyor» (Dikmece resiste) hanno iniziato a circolare mappe e immagini che mostrano la sovrapposizione tra i blocchi edilizi e la trama viaria del nuovo quartiere e gli uliveti e i sentieri esistenti.

Alcuni residenti hanno scoperto dal proprio account che i loro terreni non erano più registrati a loro nome, ma nessuna notifica ufficiale o compensazione monetaria è ancora arrivata.

I MANIFESTANTI dichiarano che non permetteranno che gli ulivi secolari del villaggio vengano tagliati: la prossima mobilitazione è prevista per sabato 26 agosto. Ma la determinazione si mescola a una sensazione di sconforto e impotenza. Al presidio, un giovane abitante, nato a cresciuto qui, preme per scendere a fermare le scavatrici e mandare via la polizia prima che sia troppo tardi.

«Se non riusciamo a bloccarli, se distruggeranno i nostri campi, io me ne vado. Da Dikmece e dalla Turchia, ho chiuso con questo Paese». Seduta nella sua veranda ai margini del villaggio, sua zia, un’anziana signora che non parla turco, non si fa illusioni: «Non riusciremo a fermarli».