Tira aria di resa dei conti alla vigilia del vertice straordinario di giovedì prossimo, decisivo per il varo del pacchetto di aiuti da 50 miliardi all’Ucraina. Una resa dei conti che non esclude nemmeno il ricorso alla cosiddetta «opzione nucleare» per privare uno Stato membro del suo diritto di voto. Nel mirino è ancora una volta l’Ungheria di Viktor Orban, recalcitrante all’idea di sborsare nuovo denaro a Kiev. O quantomeno all’idea di farlo senza aver prima recuperato i circa 30 miliardi di fondi europei destinati a Budapest e rimasti in gran parte congelati.

Il tema, discusso al vertice di dicembre, era stato rimandato con l’obiettivo di negoziare una soluzione che andasse bene anche al despota dell’Est Europa. Finora però le trattative si sono rivelate un dialogo tra sordi, con Budapest che continua a chiedere di spacchettare gli aiuti all’Ucraina e di approvarli di anno in anno, e il resto degli Stati membri che insiste invece sulla necessità di definire un quadro di aiuti prevedibile per Kiev. Necessità divenuta ancor più incalzante dopo la bocciatura di Washington al sostegno finanziario dell’alleato ucraino. Bruxelles aveva cercato di ammorbidire l’opposizione di Orban sbloccando un terzo circa dei fondi diretti a Budapest.

Ma il premier ungherese è rimasto inamovibile. Intascato l’assegno, ha continuato a fare ostruzionismo, portando lo scontro a un livello così alto che nelle ultime ore si sta materializzando sempre di più l’ipotesi di disinnescare l’Ungheria privandola del suo diritto di voto in Consiglio. La procedura, prevista all’articolo 7 del Trattato Ue, consente di sospendere alcuni diritti di adesione degli Stati membri, tra cui quello di voto in Consiglio, quando vi siano gravi e ripetute violazioni dello Stato di diritto in un Paese.

L’opzione nucleare, più volte invocata per l’Ungheria di Orban e per la Polonia dell’estrema destra del PiS, è stata finora un taboo. Gli Stati si sono dimostrati riluttanti all’idea di votare contro un membro del club, non ultimo per timore di creare un precedente che un giorno potrebbe ritorcerglisi contro. Per privare uno Stato del suo diritto di voto, poi, è richiesta l’unanimità degli Stati membri, escluso quello sottoposto alla procedura. Se finora Polonia e Ungheria sono state l’una lo scudo dell’altra, adesso è la Slovacchia di Robert Fico che copre le spalle a Budapest. Bratislava, a pochi mesi dall’insediamento del nuovo governo, è già finita nel mirino dell’Ue per la riforma del codice penale voluta dal premier slovacco perché pone dei rischi per lo Stato di diritto.

Agitare quindi lo spettro dell’opzione nucleare sembra più un bluff, comunque indicativo dell’insofferenza di Bruxelles ai continui diktat di Orban. E il prezzo politico che il premier ungherese rischia di pagare non è da meno: tra le vie esplorate per piegare l’opposizione di Orban, c’è anche quella di far saltare il turno di presidenza del Consiglio Ue che Budapest dovrebbe assumere, da programma, a luglio. Un semestre cruciale in cui verranno ridisegnati gli equilibri delle istituzioni europee alla luce delle elezioni di giugno. Forse l’unica arma che potrebbe indurre Orban a più miti consigli.