Uno sceicco degli Emirati arabi noto come «il Principe», che da una miniera abbandonata nelle Alpi progetta di compiere attentati in Occidente. Un gruppo di terroristi che sta organizzando da Damasco il «bombardamento di Tel Aviv». Le multinazionali del petrolio che tirano le fila delle dittature dell’America latina. Ma, anche, l’ascesa di Hitler e le trame dei nazisti nell’Europa centro-orientale prima dello scoppio del Secondo conflitto mondiale; il ruolo onnipresente della Cia negli intrighi internazionali del lungo secondo dopoguerra; la repressione staliniana che ha soffocato le nascenti democrazie del dopo ’45 ad Est. E, naturalmente, come da tradizione, ogni sorta di intreccio figlio della Guerra fredda e del lungo braccio di ferro tra Mosca e Washington.

QUANDO, il 22 ottobre del 1998 Eric Ambler morì a Londra, dove era nato, all’età di 89 anni, il New York Times dedicò all’autore britannico un omaggio sentito, dando l’addio a quello che veniva definito come lo «scrittore di thriller che elevò il genere a letteratura». Ma Ambler, considerato come uno dei maestri della spy story, e di cui figure come Graham Greene e John le Carré ebbero a dire rispettivamente che si trattava del «più grande scrittore vivente di romanzi di suspense» e che i suoi romanzi andavano considerati alla stregua del «pozzo in cui tutti si erano tuffati», era stato forse prima di tutto un interprete delle amare convulsioni del Novecento, cui aveva dato voce letteraria, spesso anticipando i tempi, sia sul piano dell’invenzione narrativa che in chiave storica. Se infatti si è soliti inquadrare il romanzo di spionaggio principalmente all’interno della stagione della Guerra fredda, la geopolitica sentimentale tracciata da Ambler sembra coprire un arco temporale, e tematico, che va dagli anni che hanno tenuto a battesimo i fascismi europei, allo sviluppo delle crisi politiche e sociali ancora oggi all’origine di guerre, conflitti e tragedie.

QUASI MEZZO SECOLO separa La maschera di Dimitrios, uno dei suoi romanzi più celebri, pubblicato nel 1937, da Tempo scaduto, la sua ultima opera, uscita nel 1981; entrambi editi da Adelphi che sta ripubblicando gran parte dei titoli dello scrittore. Nel primo caso – una storia portata sullo schermo nel 1944 da Jean Negulesco, in uno dei molti scambi con il cinema dell’opera di Ambler (per brevità si ricorderanno Terrore sul Mar Nero, diretto da Norman Foster e Orson Welles nel 1943 e Topkapi, regia di Jules Dassin del 1964) -, un ex professore inglese che ha fatto fortuna scrivendo libri gialli, Charles Latimer, durante un soggiorno a Istanbul incontra il colonnello Haki della polizia segreta di Ataturk che lo spinge ad interessarsi alla figura di Dimitrios Makropoulos, un assassino, spia e trafficante di droga il cui corpo è appena stato rinvenuto nelle acque del Bosforo. Siamo alla metà degli anni Trenta e «l’indagine» sulle tracce del criminale scomparso porterà Latimer a misurarsi con il clima che sta montando in Europa, da Parigi ai Balcani e via via fino alla Turchia, dove l’ombra dei nazionalismi contrapposti, le mire dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani, annunciano già il dramma che avrebbe preso corpo di lì a poco.

Quanto al romanzo del 1981, racconta di come Robert Halliday, uno scrittore britannico che si mantiene prestando la sua opera alle «autobiografie» di figure celebri del mondo dello spettacolo come del cinema, si imbatte in un personaggio misterioso mentre è sulle tracce di un manoscritto perduto di Sergej Gennadievic Necaev, tra i principali esponenti del movimento nichilista russo morto in una prigione zarista nel 1882, e a cui si ispirò probabilmente Dostoevskij per uno dei protagonisti de I demoni. Si tratta di uno sceicco del Golfo che sogna di distruggere gli Stati Uniti e i loro alleati attraverso degli attentati sanguinosi condotti con l’uso di armi chimiche. Se la vicenda riporta Ambler ad occuparsi della situazione del Medioriente, come già aveva fatto nel 1972 con Il levantino, ipotizzando un attacco palestinese su larga scala contro Tel Aviv, nel caso di Tempo scaduto in molti parleranno di «romanzo profetico» per le evidenti analogie della trama con quanto sarebbe effettivamente avvenuto vent’anni dopo l’uscita del libro, l’11 settembre del 2001, nell’attacco sferrato dagli jihadisti di Bin Laden contro New York.

Autore di una ventina di romanzi e di altrettante sceneggiature, dopo aver servito durante la Seconda guerra mondiale nelle squadre cinematografiche dell’esercito britannico impegnate al fronte, dove conoscerà John Huston, Eric Ambler tenterà senza grande successo l’esperienza hollywoodiana prima di fare definitivamente ritorno in Gran Bretagna nel 1958 per dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Il suo stile è però già tracciato dai romanzi che ha pubblicato nella seconda metà degli anni Trenta, quando, non ancora trentenne e mentre si mantiene facendo il giornalista, pubblica opere come, tra le altre, Epitaffio per una spia (1938), Motivo d’allarme (1938) o Viaggio nella paura (1940).

Nelle sue storie, il romanzo di spionaggio si intreccia con il thriller – è stata spesso citata la sua influenza su Hitchcock -, con il poliziesco, a volte con lo spirito dell’avventura, mentre il proprio personale marchio di fabbrica, accanto alla capacità di condurre i personaggi, e i lettori, da un capo all’altro del mondo – o talvolta del tempo, come per Il caso Schirmer (1953, tradotto nel nostro Paese da Giorgio Manganelli) che si muove tra due secoli -, restano i dialoghi asciutti e serrati e l’incedere con apparente nonchalance tra le inquietudini esistenziali dei personaggi. Inoltre, a differenza dei protagonisti di molte altre spy story, le figure che Ambler pone al centro delle sue trame sono raramente spie professioniste, poliziotti o agenti del controspionaggio, quanto piuttosto dei dilettanti, decisamente riluttanti a trasformarsi in eroi. Un altro elemento che ricorre nei suoi romanzi è poi la figura dell’esiliato o dell’apolide: in qualche modo uno dei «personaggi» della tragica storia del Novecento.

QUANTO ALLE SUE IDEE, convinto antifascista, Ambler non fu mai iscritto al Partito comunista britannico, anche se ne condivise negli anni Trenta diverse battaglie, convinto com’era che l’Urss rappresentasse in Europa l’unico contrappeso possibile alla minaccia che veniva dai regimi di Roma e Berlino e dai loro molti alleati. Non a caso nei suoi romanzi dell’epoca compaiono spesso degli agenti sovietici rappresentati positivamente e alleati del protagonista. La «svolta», come ha spiegato sul Guardian Thomas Jones, avvenne in occasione del Patto Ribbentrop-Molotov del 1939 che convinse Anbler di tutta la pericolosità della deriva staliniana. Nel 1951, il suo romanzo Il processo Deltchev, un’altra spy story «anomala», metterà in scena senza censure il clima di repressione che andava montando nei Paesi dell’Est. È del resto probabile che lo scrittore condividesse almeno parzialmente l’opinione del critico Jacques Barzun che, a proposito delle sue opere, aveva scritto che «il romanzo è sovvertitore per vocazione: il romanziere è una spia in territorio nemico. Non c’è dunque da stupirsi se la sua parabola finale è il racconto con dentro una spia dichiarata e certificata».