Thomas Belmonte, quando arrivò a Napoli nel 1974, dove «case e dolciumi erano decorati con gli stessi colori», per indagare la vita nei quartieri poveri della città, manifestò da subito il suo talento da scienziato: un misto di preparazione e di intuito, di curiosità e di pazienza. Belmonte si accorse che la sua ricerca non avrebbe dovuto limitarsi a essere svolta sul campo ma anche – e soprattutto – con il campo.

PER RACCONTARE LA VITA nei vicoli più nascosti e miseri non sarebbe bastata la semplice osservazione della popolazione, così come non sarebbero state soddisfacenti le tradizionali interviste; occorreva invece stare con le persone, andare a vivere nelle loro case umide, di una stanza sola, capirne le dinamiche, mantenersi in equilibrio sulla frontiera che separa l’amico dall’estraneo, il confidente dalla spia. Perciò l’antropologo, per molti mesi, diventò napoletano, imparando gli usi, gli istinti di sopravvivenza, le necessarie furbizie.

Belmonte capì che nella stessa casa, nella stessa numerosa famiglia, nei piatti e nei letti condivisi stava tutta l’intimità di Napoli. Capì che negli stessi cinque minuti potevano propagarsi dolore, rabbia, gioia, amore, speranza e rassegnazione. La città era «luogo di dolore e ultima speranza: ero obbligato a interpretare Napoli all’interno di queste polarità». Einaudi riedita La fontana rotta (pp. 192, euro 18,50) il libro che nacque dal lavoro in residenza di Belmonte, con la nuova traduzione di Daniele Petruccioli che restituisce al meglio la prosa limpida da romanziere dell’autore. Un testo ibrido ancora attuale, che scova nel movimento perpetuo di Napoli alcuni elementi della partitura urbana che tendono a ripetersi.

Nei vicoli, dai Quartieri Spagnoli fino al Rione Sanità, si respira ancora un’aria da dopoguerra. Le famiglie sono formate da nuclei numerosi, i lavori sono precari, si contrabbanda, il furto è ammesso. Tutto è concesso alle regole della sopravvivenza, perché nulla è dato in partenza. Se nasci a fontana del re – così Belmonte chiama il complesso di case rovinate tra le quali sta anche quella che prende in affitto – non hai che da provare a mantenerti a galla, a sopraffare per non essere sopraffatto, non puoi far altro che darti all’ingegno, che non ti salva, non ti regala molto, ma ti porta fino a sera e all’attesa del giorno dopo.

BELMONTE SA CHE GLI ANNI Settanta pure a Napoli sono stagioni di lotte e di cambiamenti, eppure scorge questi poveri ancora sospesi ai bordi della storia, relegati a un futuro piccolo, destinato a replicarsi giorno dopo giorno. Sono ossessionati dal denaro, hanno paura di non riuscire a procurarsi da vivere per i figli e per sé, ma vivere non può essere soltanto mangiare. Vivere è una lotta e queste persone si legano l’una all’altra: si aiutano e diffidano, un giorno si tendono la mano, quello dopo sono pronte a scannarsi, una sera ti prestano del denaro, la mattina dopo ti sfilano il portafoglio.

Belmonte entra in queste dinamiche e, pur non mancando mai al suo intento, le subisce, approfondisce attraverso la vicinanza con Stefano ed Elena e i loro figli, diventa napoletano; un legame con la città che non spezzerà mai, e nel 1983 aggiungerà al testo un’appendice: quella della città post terremoto, uno scenario cambiato. Un legame così forte che le sue ceneri – Belmonte è morto nel 1995 – saranno disperse da sua figlia al largo di Napoli. Attraverso la famiglia e le sue diramazioni Belmonte traccia un inarrivabile ritratto dei poveri di Napoli, fuori da ogni pregiudizio o stereotipo.

La fontana rotta è mobile e attraversa il tempo con le contraddizioni che evidenzia. La Napoli povera del quadro freme, è piena di energia sotterranea.

L’AUTORE sa che la sua ricerca potrebbe non esaurirsi mai, ed è per questo che amplia il testo dopo il viaggio del 1983, interrogandosi ancora. È sentimentale, in fondo la conoscenza, la fiducia, gli strumenti umani sono romantici, ma sono necessari come l’acqua agli storici, agli antropologi, agli etnologi. Così, ritrovando uno dei figli di Stefano ed Elena, nel 1983, disperato e tossicodipendente, non saprà rispondere quando questi chiederà: «Perché sono nato?».