Il prossimo 19 giugno si terrà la prima iniziativa pubblica del tavolo di confronto permanente voluto dalla Rete dei Numeri Pari per mettere insieme le opposizioni al governo Meloni. Pd, M5S, Si, Verdi e Up discuteranno di autonomia regionale differenziata e di come impedirne l’attuazione.

A questo primo incontro guardano con favore e speranza quegli elettori che, pur essendo risultati maggioranza relativa alle ultime elezioni politiche, sono stati costretti all’opposizione del governo più a destra della storia repubblicana a causa della incredibile scelta fatta dal Pd di Enrico Letta di rinunciare all’alleanza con i 5S.

Non c’è dubbio che il confronto tra le forze politiche di opposizione sia favorito dal ricambio alla segreteria del Pd di Elly Schlein convinta di voler “ricostruire la sinistra che nel nostro tempo non può che essere ecologista e femminista” come recita la mozione congressuale a supporto della sua candidatura.

Osservando la storia recente di quel partito, una contrapposizione frontale con le destre potrebbe apparire persino incomprensibile. Lo mostrano la coerente disponibilità al dialogo con il governo Meloni dell’ex segretarrio Renzi e del suo alleato-rivale Carlo Calenda e, soprattutto, il ruolo avuto dal Pd nelle riforme che negli ultimi 30 anni hanno scardinato il welfare italiano e avviato il processo di decostruzione dell’ordinamento costituzionale. Il processo di privatizzazione della sanità, giunto al punto di rendere evanescente lo stesso Ssn, ha preso corpo con la riforma del 1999 della ministra Bindi, con la istituzionalizzazione della “seconda gamba”, quella della sanità privata che si affianca e può sostituire quella pubblica.

La trasformazione in senso aziendale della scuola ha preso il via con il varo della riforma del ministro Luigi Berlinguer per il primo governo Prodi e si è conclusa, per ora, con la legge cosiddetta della “Buona scuola”, entrata in vigore nel 2015 per merito di Renzi. Dello stesso anno e ancora per merito di Renzi è la riforma del diritto del lavoro (Jobs Act), decisiva tappa nel processo di precarizzazione del lavoro. Si deve al Pd anche la primogenitura delle modifiche della Costituzione a colpi di maggioranza con la nefasta riforma del titolo V nel 2001, alla base del progetto di autonomia regionale differenziata propugnata dalla Lega.

Il capovolgimento completo dei valori ideali di cui è storicamente portatrice la sinistra è, però, avvenuto nel 2017 quando l’allora ministro degli interni del governo Gentiloni, Marco Minniti, concordò il memorandum che consente alla Guardia libica di catturare e costringere nelle carceri di quel paese tutti i disperati che tentano di attraversare il Mediterraneo per sottrarsi alle calamità naturali, alle guerre o, semplicemente ma non meno drammaticamente, alla fame.

Chi conosce bene il Pd sa che, con questa storia alle spalle, riportare il partito nell’alveo della sinistra non sarebbe neppure immaginabile se non sulla spinta di fattori esogeni, ovvero per “incursione” esterna. È questo il tentativo messo in atto da Elly Schlein, eletta segretaria grazie al voto degli elettori non iscritti al partito e, anzi, contro il volere degli iscritti che soltanto per un terzo l’hanno preferita al candidato più accreditato e favorito della vigilia, Stefano Bonaccini. La mozione con la quale lo ha battuto contiene molti dei propositi necessari per la trasformazione del partito, dal potenziamento della sanità e dell’istruzione pubblica alla lotta alla precarietà del lavoro, dall’abolizione della legge Bossi-Fini allo stop al disegno di legge Calderoli.

La nuova segretaria ha avuto il voto degli “esterni” perché intenzionata a capovolgere buona parte delle scelte fatte dal suo partito in questi anni. Il tavolo di confronto voluto dalla Rete dei Numeri Pari è un’occasione straordinaria per mostrare che non intende abbandonare questo obiettivo e che non si lascerà ingabbiare nella rete dei compromessi con i “riformisti”, che al centro rivendicano ancora la storia parlamentare poco onorevole del Pd e in periferia consumano quotidianamente la pratica del governo clientelare. Ne uscirebbe sconfitta anche alle elezioni europee del 2024 e, quel che più a noi importa, segnerebbe anche la fine delle speranze di trasformazione del suo partito. Un esito che non gioverebbe a nessuno perché sarebbe illusorio pensare, come insegnano tutte le esperienze sin qui messe in campo, che si possa costruire un’alternativa di sinistra in questo Paese facendo a meno degli elettori del Pd.