Si aprono in Turchia altri processi a carico di giornalisti e attivisti, dopo mesi di attesa in prigione. Era ancora in corso ieri a notte inoltrata, dopo 113 giorni di detenzione, la prima udienza del processo a carico di 11 attivisti arrestati il 5 luglio scorso sull’isola di Buyukada (Istanbul) mentre tenevano un workshop sulla protezione e la sicurezza informatica per i difensori dei diritti umani. Mentre scriviamo la procura ha chiesto la scarcerazione di sette attivisti e invece la conferma della galera per altri due imputati.

In aula alla sbarra ieri c’erano Ozlem Dalkiran e Nalan Erkem della Assemblea dei cittadini, gli attivisti Ali Gharavi e Peter Steudtner, Gunal Kursun; inoltre Veli Acu dell’associazione Agenda per i diritti umani e la direttrice di Amnesty Turchia Idil Eser per i quali è stato richiesta dalla procura la conferma del carcere. Tutti detenuti nel carcere speciale di Silivri, oltre a Nejat Tastan dell’Associazione per il monitoraggio dell’uguaglianza dei diritti e Seyhmus Ozbekli di Iniziativa per i diritti, ad oggi in libertà in attesa di giudizio. lknur Ustun di Women’s Coalition, detenuta nel carcere femminile di Sincan, e Taner Kilic, presidente di Amnesty Turchia, hanno partecipato solo in videoconferenza. L’accusa per tutti loro è associazione terroristica e sostegno al terrorismo pur senza essere membri di un’organizzazione.
Gli avvocati difensori hanno richiesto per tutti la scarcerazione immediata e contestato duramente l’infondatezza e l’incoerenza delle prove della procura, ma la sensazione che si raccoglieva ieri in aula è che i giudici preferiranno rinviare l’udienza senza acconsentire alla liberazione degli attivisti.

Un messaggio in loro sostegno è arrivato anche da Edward Snowden, ricercato dagli Usa per divulgazioni di informazioni riservate della Nsa e in asilo politico in Russia. Su twitter Snowden ha scritto: « (…) Amnesty si è mossa in mio favorein un momento in cui era difficile. Ora è tempo che siamo noi a batterci per loro».

Si è conclusa intanto la prima udienza di un procedimento che vede sei giornalisti, Derya Okatan, Tunca Ogreten, Mahir Kanaat, Omer Celik, Metin Yoksu, Eray Sargin, tutti imputati di violazione di segreto di stato e di aver screditato le politiche energetiche del paese. Tre di loro hanno atteso per mesi l’udienza in carcere e solo per Omer Celik è arrivata la sospirata scarcerazione, con il divieto di lasciare il paese. Sono accusati di aver divulgato alcune mail che un gruppo hacker noto con il nome di RedHack ha sottratto a Berat Albayrak, ministro dell’energia e genero del presidente Tayyip Erdogan, per poi divulgarle in rete. I giudici hanno concentrato le loro domande sui rapporti in rete tra i giornalisti e il gruppo hacker, in particolare tramite Twitter e gruppi Whatsapp per la circolazione dei documenti sottratti. Nelle mail il ministro viene associato anche ad un’azienda di distribuzione petrolifera, Powertrans che, operando nel Kurdistan iracheno, avrebbe agevolato il trasferimento di petrolio verso la Turchia. I giornalisti si sono difesi sostenendo l’autorevolezza del loro lavoro giornalistico, per il quale si sentono perseguitati.

Ma sotto la lente della procura sono finiti anche articoli sulle operazioni militari nel sudest turco a maggioranza curda. I giornalisti sono accusati di creare, con i loro scritti, un clima favorevole al terrorismo. Omer Celik, traduttore che ha voluto sostenere la sua causa in tribunale in lingua curda, ha detto: «In qualsiasi altro paese dove vige lo stato di diritto, le nostre attività professionali sarebbero state premiate e non causa di torture e processi in tribunale».