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Trump vuole cancellare quelle “26 parole che hanno creato Internet”

Trump vuole cancellare quelle “26 parole che hanno creato Internet”Donald Trump in un comizio subito prima del suo ricovero per Covid-19 – Ap - LaPresse

Stati uniti Nel diluvio di tweet post-ricovero, il presidente Trump torna alla carica contro i giganti della Silicon Valley e del Big Tech. Ma la sua proposta di abolire la "clausola 230" che esonera i provider dalle responsabilità sui contenuti di ciò che viaggia in rete non dispiace neanche ai democratici

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 9 ottobre 2020

E’ scritto in maiuscolo, brevissimo. Secco. Come quel “LAW & ORDER” di qualche tempo fa, alle prime rivolte del Black Lives Matter.

Tre parole, in caps lock: “REPEAL SECTION 230”. Abrogare il 230.

Nel profluvio di tweet del presidente Trump post ricovero, questo è andato un po’ smarrito. Di più – com’è giusto che sia – hanno pesato sui media le altre sue sortite social. Quelle in risposta alla scelta di Jack Dorsey di inserire un disclaimer – un avvertimento – sotto i cinguettii presidenziali che equiparavano il Covid-19 a una banale influenza: “Queste notizie sono false e non confermate”.

Il tweet sull’abrogazione del “230” è comunque dentro questa vicenda. Ma rivela molto, molto di più. Senza che però, in questo caso, ci sia stata una levata di scudi. Neanche da parte dei democratici.

Di che si tratta? In pillole: il ”230” è un paragrafo del complesso di norme, firmate da Bill Clinton ventisei anni fa, conosciuto come la Communications Decency Act, il primo tentativo di legiferare sulla rete. Quando c’era ancora chi vedeva Internet come strumento di liberazione.

Poi, certo, la rete ha preso ben altre strade ma non per quelle norme. Anzi, probabilmente per la mancanza di altre norme.

Comunque sia, dentro quel Communications Decency Act del ’96 c’è appunto il 230: che stabilisce il principio per il quale i “fornitori di servizi on line” non possono essere considerati responsabili (a differenza degli editori della carta stampata) di quel che viene pubblicato.

I responsabili – se c’è un reato – sono gli autori dei messaggi, dei filmati, delle foto. Non chi fornisce la connessione.

Certo, fin da subito, fin dal mese successivo alla firma, i provider furono invitati a dotarsi di regole proprie, di norme e procedure stringenti per evitare gli abusi. Sappiamo tutti come è andata ma sicuramente il 230 ha evitato che chi fornisce l’accesso al Web finisse in tribunale.

Di più: con la solita enfasi retorica, gli storici entusiasti, ancora pochi anni fa, scrivevano che quelle “ventisei parole del 230 hanno permesso la creazione di Internet”. Hanno permesso di poter scrivere, per esempio, sui forum “odio il mio padrone di casa” senza che il gestore finisse sotto processo, hanno permesso di pubblicare i video della violenza della polizia americana senza che i provider li cancellassero, temendo cause milionarie.

Ma questa è storia, anche se recente. Ora vogliono cancellare quella norma.

Trump non si è limitato al tweet. Anzi: il cinguettìo è servito solo a ribadire una scelta che ha già fatto. Quando, poco tempo fa, col preciso obbiettivo di cancellare il 230, ha firmato un ordine esecutivo.

E’ uno strumento un po’ complesso nelle mani del Presidente che – su delega del parlamento o in particolari situazioni – può avviare un iter legislativo. Ordine esecutivo che però è soggetto ad esame dei giudici. E mai come questa volta tutti – ma proprio tutti i commentatori – sono stati concordi nel sostenere che il decreto non passerà mai il vaglio di costituzionalità.

Trump comunque l’ha firmato lo stesso, nel maggio scorso, in piena pandemia, all’epoca di altri scontri verbali con Twitter e Facebook. L’ha firmato avendo a fianco a sé il procuratore generale William Barr, incaricato da Trump di spingere le Camere ad abrogare la 230 e intanto a monitorare – d’intesa coi Procuratori – cosa si può fare per limitare la libertà di moderazione dei social media.

Pochi giorni fa, infine, l’accelerazione col tweet post-ricovero. Vogliono abrogare il 230, dunque.

Vogliono, però, al plurale. Tutti. Perché gli stessi democratici sono per la cancellazione di questa norma. Ovviamente con motivazioni diverse.

Se i repubblicani – senza eccezioni – insistono per togliere l’immunità a Facebook, Twitter, Instagram eccetera solo per ripicca contro le “moderazioni” subite in questa campagna elettorale, i democratici lo vogliono perché gli stessi colossi dei social hanno fatto troppo poco per attenuare le fake news che circolano in rete. A cominciare da quelle sparate da Trump.

Col risultato non voluto che ora lo staff del presidente, parlando di questi argomenti, usa aggettivi e parole che potrebbero essere tranquillamente utilizzate – e sono utilizzate – dai movimenti radicali: non si può lasciare la difesa della libertà di parola ai monopolisti, non si può affidare a quattro aziende il decidere cosa sia pubblicabile e cosa no. Parole che potrebbe fare da pendant con quelle della Speaker democratica Nancy Pelosi: “Basta, le Big Tech hanno troppo potere. Il modello di business dei social media è fare soldi a scapito della verità e dei fatti”.

Così le uniche opposizioni, stavolta, vengono dai soliti noti. Dalla autorevole Electronic Frontier Foundation, o dal più combattivo, e più militante, Fight For The Future, guidato dall’artista transgender Evan Greer. Che non hanno avuto dubbi nello spiegare che l’alternativa non può essere ridotta fra il controllo delle Big Tech ed il controllo del governo.

Perché non c’è dubbio che le “Big Tech abbiano accumulato un enorme potere per limitare la libertà d’espressione, diffondere pericolosa disinformazione, mettere a tacere il dissenso e manipolare l’opinione pubblica”. Ma la risposta non è nell’abrogazione del 230: piuttosto è nel prevenire e regolare la raccolta dati, è nel vietare – a cominciare da questa campagna elettorale – le pratiche di microtargeting. “E’ varare davvero misure antimonopolistiche per combattere lo strapotere della Silicon Valley alla radice”.

Ma né Trump né l’opposizione hanno intenzione di farlo.

La cancellazione del 230, insomma, sembra entrarci davvero poco con la battaglia anti-monopoli. E c’è un precedente di due anni fa, che lo testimonia.

Con un sostegno bipartisan, gli Usa hanno varato la FOSTA, la Fight Online Sex Trafficking, una legge che sotto il titolo di lotta alla pornografia ha intaccato per la prima volta quella norma. Consentendo agli Stati di varare leggi che ora puniscono – con pesantissime sanzioni penali – i provider che ospitano “pagine pornografiche” ed immagini “ambigue”. A quella legge si sono opposte le sex workers, solo pochi altri hanno compreso che era un primo tassello per una manovra più ambiziosa.

I risultati? Immediatamente dopo il varo della Fosta, sono stati chiusi migliaia di siti che consentivano alle sex workers di lavorare in sicurezza, sono stati chiusi centinaia di siti di appuntamenti. Fatti chiudere dai provider che temevano le sanzioni. Poche settimane dopo, Facebook ha annunciato che sarebbe entrata nel settore degli appuntamenti on line.

E così sarà anche stavolta, con l’abrogazione del 230.

Facebook e Twitter, di fatto, si oppongono a parole. Tenuamente. Hanno decine di migliaia di dipendenti e filtri automatici che consentono loro di mettersi in regola con qualsiasi normativa. Anche la più liberticida.

Rischiano di chiudere, invece, Wikipedia e i forum liberi, perché non potranno sopportare il peso economico delle denunce e i processi di chiunque si senta denigrato. Sì, la lotta ai monopoli si fa in un altro modo.

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