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Trump inciampa nella trappola di Harris. Ma la vittoria è incerta

Trump inciampa nella trappola di Harris. Ma la vittoria è incertaI candidati alla presidenza degli Stati uniti Donald Trump e Kamala Harris durante il dibattito a Philadelpia – foto di Win McNamee/Getty Images

Elettorale americana I sondaggi fotografano sempre un testa a testa, ma anche i media di destra come Fox News riconoscono l’esistenza di «un problema»

Pubblicato 28 giorni faEdizione del 12 settembre 2024
Luca CeladaLOS ANGELES

È assai improbabile a questo punto che queste siano elezioni che si possano giocare su posizioni esposte in un dibattimento. Semmai questa campagna solidamente ancorata nella post verità, sta solo confermando che non vi è soluzione dialettica al trumpismo (come non ve ne è stata nei tribunali). Quasi metà del paese non considera squalificante il tentativo di golpe, né le bufale seriali (oggi amplificate dal nuovo “ministro della disinformazione”, Elon Musk).

Nel gioco delle infinitesime riserve di «indecisi» potenzialmente determinanti nello smuovere l’ago della bilancia, rimangono dunque forse solo le percezioni epidermiche, se non per cambiare opinione, allora almeno per motivare la partecipazione che potrebbe risultare risolutiva (specie in quella manciata di swing states in cui si giocherà la partita).

SULLO SFONDO delle posizioni che i sondaggi continuano a fotografare come inchiodate sulla parità apparentemente inscalfibile, una delle rimanenti potenziali variabili avrebbe potuto essere una catastrofica performance di Kamala Harris che la smascherasse come incompetente o incapace di gestire l’uomo che aveva dopotutto messo in difficoltà una politica navigata come Hillary Clinton.

L’obiettivo primario del dibattito, seguito in prima serata da 70 milioni di americani, era di presentarsi alla massa distratta che, dopo l’avvicendamento improvviso con Biden, avevano davvero visto la nuova candidata solo nella convention, un evento mediatico altamente coreografato e controllato.

Il dibattito (con divieto di appunti o contatti con staff) era insomma la necessaria prova di prontezza politica senza rete o copione. Harris ci è arrivata con reputazione di buona polemista con esperienza di pubblico ministero. Ma con anche alle spalle le performance non proprio smaglianti nella mezza dozzina di dibattiti sostenuti all’epoca della campagna fallimentare nelle primarie 2019. Fra i due aveva insomma chiaramente più da perdere lei.

DATE LE PREMESSE si può dire che l’esame sia stato brillantemente superato. Un successo oggettivo al punto che l’indomani la campagna Harris ha postato l’intero video di quai due ore come ultimo spot elettorale sui feed social. I sondaggi dicono che il 63% degli americani la considera vincente contro solo il 37%, nel contesto della polarizzazione di cui sopra, i numeri sono schiaccianti – perfino la Fox ed i canali di destra riconoscono quantomeno un problema, anche se in generale lo imputano alla perfidia della «sinistra radicale» e la parzialità degli infidi moderatori della Abc.

LA VERITÀ è che dal momento in cui Harris è uscita sul palco andando a sorpresa a stringergli la mano («Piacere, Kamala Harris») Trump è rimasto in disequilibrio e sulla difensiva. È stato presto evidente che c’era un piano ben preparato ed espertamente eseguito: provocare l’avversario e lasciare che si scavasse da solo la fossa. Harris lo ha fatto ripetutamente (dalle esigue folle ai comizi, allo scherno dei leader mondiali, alla manipolazione da parte dei dittatori del mondo). E Trump ha abboccato ad ogni trappola, lanciandosi in furenti requisitorie in cui i cavalli di battaglia dei suoi comizi (esecuzioni di neonati, scolaresche indottrinate da transgender e, sì, anche l’ultimo bizzarro meme sui clandestini haitiani mangiagatti) hanno restituito l’immagine desiderata di un re nudo e incoerente. Ad un certo punto le bufale hanno iniziato ad affastellarsi in associazione libera («operazioni di cambio sesso obbligatorio per immigrati clandestini in detenzione!»).

NEL CONTESTO, anche gli argomenti più potenzialmente “vincenti” di Trump (al netto del suo stesso ipercapitalismo militarizzato e mercenario), come la disastrosa conduzione Biden delle guerre in Palestina e Ucraina, sono risultati inefficaci e trafelati.
L’archetipo del format dibattimentale è il primo confronto fra Kennedy e Nixon nel 1960. L’indomani di quel primo dibattito dell’era televisiva, molti assegnarono la vittoria a Nixon, che era stato più esauriente sui dettagli programmatici. Ma nei giorni a seguire a prevalere è stato il giovane e abbronzato senatore de Massachusetts, telegenico e rilassato – non Nixon, perspirante e teso sotto i riflettori dello studio.

Da allora l’opinione prevalente è che i vincitori si possono individuare col volume abbassato. E in questo ambito performativo è nettamente prevalsa Harris, capace di incarnare con la postura, le espressioni e il tono di voce, lo sdegno sardonico e l’incredula esasperazione che i suoi sostenitori sentono come viscerale e “umana” reazione allo sproloquio nazional populista.

NON AVRÀ CONQUISTATO i sostenitori inconvincibili, e forse nemmeno gli indecisi, ma a questi ultimi e a tutto il paese, ha quantomeno chiaramente dimostrato la propria competenza e “idoneità presidenziale”. Soprattutto, almeno nello spazio di un dibattito, ha reso tangibile l’immagine di Trump come perdente.

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