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Trump impone il silenzio, un anno dopo non c’è giustizia per Khashoggi

Trump impone il silenzio, un anno dopo non c’è giustizia per Khashoggi

Arabia saudita «I leader mondiali non hanno agito contro i veri responsabili», commenta con amarezza Hatice Cengiz la compagna turca del giornalista saudita, assassinato e fatto a pezzi nel consolato dell'Arabia Saudita a Istanbul.

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 2 ottobre 2019

Hatice Cengiz non trova pace. La società civile internazionale è dalla sua parte ma si sente tradita. «I leader mondiali non hanno agito contro i veri responsabili», commenta con amarezza la promessa sposa di Jamal Khashoggi, assassinato e fatto a pezzi un anno fa nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. Lei fu l’ultima che lo vide varcare la porta dalla quale il giornalista saudita non sarebbe più uscito vivo. Cengiz da giorni sottolinea che non lascia dubbi il rapporto della relatrice speciale dell’Onu Agnes Callamard. Fa riferimento a «prove credibili» sulle responsabilità del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) nell’operazione per far tacere Khashoggi, in un modo o nell’altro. Cengiz sa anche che i centri per i diritti umani hanno più volte chiesto giustizia per il giornalista che dalle pagine del Washington Post e altri media non esitava, quando necessario, a criticare apertamente la monarchia saudita. Per questo il reporter aveva deciso di vivere in un esilio autoimposto negli Stati Uniti. Ma queste voci seppur importanti non possono bastare a chi, come lei, ha sete di verità.

Khashoggi non era un oppositore accanito della famiglia Saud ma aveva la “colpa” di aver condannato le presunte riforme proposte da MbS. A segnare il suo terribile destino è stata anche la vicinanza al movimento dei Fratelli musulmani, nemico del regime saudita. Cosa sia accaduto un anno fa solo sanno tutti, anche il Congresso Usa e la Cia. Ma l’evidenza si scontra con il muro del silenzio eretto dall’uomo più potente del mondo, Donald Trump. Il presidente Usa si è anche rifiutato di ricevere Cengiz quando chiese al Congresso verità per il suo Jamal. Trump ha messo al primo posto gli affari del petrolio e le decine di miliardi di dollari che l’Arabia saudita spende ogni anno in armi di fabbricazione statunitense. E ha salvato il rampollo reale e l’Arabia saudita, uno dei principali paesi che violano i diritti umani e civili, delle donne, della stampa, e responsabile da oltre quattro anni di pesanti bombardamenti aerei in Yemen. Per Washington, gli Stati sono «canaglia» solo se nemici degli Usa. Solo chi è in malafede come Trump può credere alle parole di MbS che, in una recente intervista, ha proclamato la sua estraneità all’uccisione di Khashoggi. Non si può avere fiducia nella giustizia saudita e nel processo in corso a Riyadh, dove sono state chieste cinque condanne a morte per altrettanti esponenti di secondo piano dell’entourage del principe ereditario. Pagheranno loro le colpe di altri.

«Jamal mi disse solo: aspettami qui fuori, ci vediamo tra poco. Mi consegnò il cellulare per evitare che potesse essere spiato», ricorda Cengiz. Furono le ultime parole che il giornalista pronunciò prima di entrare nel consolato saudita per ritirare i documenti necessari per il loro matrimonio. Di lui si sono perse le tracce, i suoi resti non sono mai stati ritrovati. Intercettazioni telefoniche arrivate nelle mani delle autorità turche, dimostrano che la sede diplomatica si trasformò in macelleria. Dopo aver strangolato il giornalista, i suoi carnefici lo fecero a pezzi e lo sciolsero nell’acido. Turan Kislakci, presidente dell’associazione della stampa arabo-turca e amico di Khashoggi, ha riferito che la pericolosità di MbS era nota ma mai il giornalista si sarebbe aspettato che «una cosa del genere potesse accadere in Turchia».

Le indagini condotte da Ankara portarono quasi subito all’identificazione di 15 persone, giunte a Istanbul prima dell’appuntamento del giornalista e ripartite subito dopo la sua uccisione. La richiesta di estradizione dei sospetti non è mai stata accolta. Dopo più di due settimane di tentativi maldestri di deviare le indagini, il 19 ottobre Riyadh ammise che Khashoggi era stato ucciso all’interno del consolato da un gruppo di uomini ma ancora oggi nega qualsiasi responsabilità della casa reale. Le settimane successive furono dense di rivelazioni. La Cia, grazie ad intercettazioni di conversazioni telefoniche di MbS e i suoi stretti collaboratori, ha messo a disposizione di Trump un rapporto inequivocabile sulle responsabilità dell’erede al trono saudita. La Casa Bianca ha chiuso gli occhi davanti ad ogni evidenza. Lo stesso hanno fatto gli Stati europei, comprati dai petrodollari dei Saud, buoni alleati dell’Occidente e ora anche di Israele.

MbS dopo qualche mese di purgatorio, è stato riaccolto a braccia aperte dalla «comunità internazionale». La Turchia continua a reclamare giustizia ma l’impegno del “sultano” Erdogan appare il frutto più della rivalità tra Ankara e Riyadh che di un sincero desiderio di verità. In un comunicato congiunto, 20 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty, chiedono che sia strappato il velo del silenzio sull’assassinio di Jamal Khashoggi.

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