Trump e la via fiscale alla competitività
Nuova finanza pubblica La rubrica settimanale a cura di Nuova finanza pubblica
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La crisi economico-finanziaria sembrava aver minato, ma non certo derubricato, la globalizzazione e riproposto strategie geopolitiche. Una certa dose di sovranismo è emersa un po’ ovunque, persino nell’America di Obama.
Il protezionismo da alcuni anni non è più un tabù. Leggere, però, l’approvazione della riforma fiscale di Donald Trump unicamente in chiave nazionale rischia di essere riduttivo.
Essa costituisce il più grande alleggerimento del carico fiscale dal 1981 e, allo stesso tempo, un provvedimento approvato in quella che per ora costituisce la più grande potenza mondiale.
In cosa consiste e cosa rappresenta? Il punto-manifesto è quello dell’abbassamento dell’aliquota sui redditi delle imprese da 35 a 21%, poi un meccanismo di tassazione territoriale che vincola gli utili a dove vengono generati, inoltre una sorta di condono per gli utili detenuti all’estero che subiranno una tassazione agevolata, infine un taglio delle tasse per le persone fisiche.
È il primo limpido successo sul piano legislativo di Trump che riesce a far entrare dalla finestra quello che non era riuscito a far entrare dalla porta: nel testo è presente l’eliminazione dell’obbligatorietà per ogni cittadino dell’assicurazione sanitaria, traducibile in una sorta di aggiramento dell’Obamacare.
L’impalcatura di questa riforma soggiace al tradizionale adagio d’impronta liberista secondo cui lasciare maggiori risorse ai più ricchi significa favorire il dispiegamento dell’economia, maggiore crescita, maggiore benessere in ultima istanza per tutti.
La ricchezza dei ricchi, dunque, dovrebbe «sgocciolare» fino ai piani dei poveri, passando per la tanto decantata classe media. Al centro finisce, o per meglio dire resta, l’impresa.
L’abbattimento delle imposte per le aziende appare rivolto alla old economy, piuttosto che al mondo dell’high tech, dato che quest’ultimo di fatto è già sottoposto a una tassazione contenuta.
Lo stesso modello fiscale legato al territorio sembra rispondere a logiche di tutela rispetto a processi di delocalizzazione produttiva e fiscale. Peccato che questo tipo di progetti spesso finisca per favorire operazioni di natura finanziaria anziché produttiva.
Su questo versante, come ha già ricordato Guido Moltedo su queste pagine, i benefici che dovrebbero ricadere sui mercati azionari si concentrano solo su quella metà degli americani, e in particolare su una porzione ristretta e assai ricca di questi, che riesce a investire in Borsa. La stessa detassazione è strutturale per le imprese e a termine per le persone fisiche (fino al 2025).
Stupisce la preoccupazione espressa dall’Europa per possibili disparità di trattamento per le proprie imprese, quando ancora in questi mesi provvedimenti analoghi, seppur meno impegnativi, sono stati annunciati da Francia e Olanda dentro una spirale per la rincorsa agli investimenti tutta interna al Vecchio continente. Sono anni che i redditi, specie d’impresa, vengono alleggeriti a tutte le latitudini.
Trump accelera pericolosamente i ritmi e approfondisce, o radicalizza, attraverso una fede cieca nella funzionalità dei meccanismi di mercato, una sorta di via fiscale alla competitività per attrezzarsi a una nuova guerra commerciale.
Questo rappresenta America first, una nuova dimensione dell’economia di mercato, che le ritrovate ambizioni sovraniste riescono a modulare meglio in tempi di post-crisi e stagnazione.
Il risultato finale, prevedibilmente, sarà una riduzione del welfare, un aumento dei profitti, una modestissima ridistribuzione finanziaria e pressoché nessuna ridistribuzione sul fronte redditi da lavoro e occupazione.
Tutto ciò ci dovrebbe interrogare sulle strade per cambiare, sulle presunte soluzioni nazionali e sull’impossibilità di aggirare dilemmi che ereditiamo dalla globalizzazione e da una iper-competizione che continua a dispiegarsi su scala sovranazionale.
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