I Talebani pakistani annunciano una tregua indefinita con il governo di Islamabad mediata dai «cugini», i Talebani afghani al potere a Kabul dallo scorso 15 agosto. L’annuncio è arrivato due giorni fa, dopo che un gruppo di una cinquantina di leader tribali ha raggiunto l’Afghanistan dal Pakistan, su invito delle autorità di fatto afghane, pronte a capitalizzare il ruolo di mediatori nella complicata partita che vede contrapposto il governo di Islamabad, che chiede la fine delle operazioni dei militanti islamisti, e il Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp), l’organizzazione ombrello di jihadisti operativi soprattutto nelle ex aree tribali, nel nord-ovest del Paese dei puri.

Secondo uno dei portavoce del Ttp, ci sarebbero stati «progressi sostanziali» nel negoziato, anche se non è chiaro quali tra le richieste storiche dei militanti – rilascio dei prigionieri, annullamento dei casi penali pendenti, ritiro dei soldati di Islamabad dall’area, adozione di un “vero” sistema islamico nel Paese – sia stata o verrà accettata da Islamabad, le cui decisioni dovranno comunque passare per il parlamento.

DA KABUL Inamullah Samangani, uno dei portavoce dell’Emirato islamico, fa sapere che «sulla base della propria politica principale di sostenere la sicurezza e la stabilità nella regione, l’Emirato continuerà i propri sforzi di mediazione per ottenere buoni risultati».

Il cessate il fuoco verrà capitalizzato politicamente dai Talebani afghani su tre fronti: sul fronte interno all’arcipelago jihadista li accredita come attori metà-guerriglieri metà-istituzionali, capaci di aprire canali di comunicazione e strappare concessioni ai governi della regione. Allo stesso tempo, li rende però facile bersaglio dei jihadisti globalisti come lo Stato islamico, la cui branca locale tornerà a criticare l’Emirato per avere svenduto non solo la battaglia per l’Afghanistan, riconquistato con un accordo a tavolino con gli americani, ma anche quella per il Pakistan.

IL SECONDO FRONTE di capitalizzazione è regionale: i Talebani sanno di poter usare la presenza sul proprio territorio di vari gruppi jihadisti come leva di negoziazione con le capitali regionali – da Tashkent a Pechino, da Teheran a Mosca –, aprendo o stringendo i margini di libertà operativa dei militanti a seconda dei rapporti con i singoli governi.

Particolarmente importante il rapporto con Islamabad, burrascoso negli ultimi mesi. La mediazione ristabilisce un clima di fiducia, ma aumenta anche il potere negoziale di Kabul verso Islamabad. In particolare quello di Sirajuddin Haqqani, a capo dell’omonima rete fondata decenni fa dal padre Jalaluddin, uomo di connessione per molti gruppi jihadisti dell’area a cavallo tra Afghanistan e Pakistan.

Sirajuddin, che poche settimane fa ha svelato il proprio volto dopo anni di clandestinità, controlla il ministero degli Interni a Kabul oltre che i Talebani dell’est, nell’area di confine con il Pakistan: la sua mediazione con il Ttp lo accredita come interlocutore regionale, nel tentativo di cancellare le tracce delle stragi compiute dai suoi uomini.

IL TERZO FRONTE è quello internazionale. L’accordo di Doha, firmato nel febbraio 2020 con gli Stati uniti, chiedeva in pratica ai Talebani di farsi garanti e scudo rispetto alle minacce terroristiche dall’area. I Talebani pakistani non minacciano il mondo esterno, solo il Pakistan, ma i cugini afghani potranno dire di essere dei pacificatori. Pur continuando a ospitare sul proprio territorio diversi jihadisti.

L’ultimo rapporto del Team di monitoraggio dell’Onu sulle sanzioni, pubblicato a fine maggio, sostiene che «i rapporti tra i Talebani e al-Qaeda rimangono stretti» e che l’organizzazione fondata da Bin Laden godrebbe «di crescente libertà di azione», anche «se la sua capacità operativa è limitata». Tra le informazioni non confermate del rapporto, quella secondo cui «un numero imprecisato di membri di al-Qaeda vivrebbe nell’ex quartiere diplomatico di Kabul, dove potrebbe avere accesso agli incontri al ministero degli Esteri».