«Chiedere un cessate il fuoco equivale a chiedere a Israele di arrendersi a Hamas». È un no senza appello quello ribadito ieri sera dal primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu alle richieste di pausa umanitaria nell’offensiva su Gaza. Un lungo discorso che si è chiuso con il suo tallone d’Achille, i 239 ostaggi ancora nelle mani di Hamas: «Ogni nazione civilizzata deve sostenere Israele nella richiesta che queste persone sua liberate immediatamente e senza condizioni».

QUASI in contemporanea con la conferenza stampa del primo ministro, a Tel Aviv si svolgeva quella delle famiglie degli ostaggi. Protagonisti i familiari delle tre donne apparse ieri in un video pubblicato da Hamas: Lena Trupanov, Danielle Aloni e Rimon Buchshtab. Nel video rilasciato dal movimento islamista, Aloni – prelevata dal kibbutz Nir Oz insieme alla figlia di cinque anni – si rivolge a Netanyahu accusandolo di essere responsabile in tutto e per tutto degli eventi drammatici del 7 ottobre e pretendendo la liberazione immediata degli ostaggi, dei cittadini di Gaza e dei prigionieri di Hamas. Benché verosimilmente il testo sia stato scritto dal movimento che la tiene in ostaggio, le grida della donna che ha ripetuto più volte la parole «adesso» al termine dell’appello hanno ulteriormente sconvolto gli animi degli israeliani che da 23 giorni trattengono il respiro per la sorte degli ostaggi. Netanyahu ha liquidato il video, già divenuto virale, come «propaganda psicologica di Hamas-Daesh», assicurando nuovamente che si farà di tutto per la liberazione degli ostaggi, mentre giungeva la notizia che il capo del Mossad David Barnea avrebbe effettuato una visita in Qatar lo scorso venerdì e che, nonostante le note difficoltà, le trattative con Hamas sarebbero ancora in corso.

Proprio all’emiro del Qatar – vicino al movimento Hamas – si è rivolto ieri Remus Aloni, padre di Danielle, una delle tre donne apparse nel video, durante la conferenza stampa di ieri: «Faccia ogni sforzo possibile per riportarli a casa», ha detto definendo la prigionia di donne, bambini e anziani «un crimine contro l’umanità». Ha poi fatto appello alla Croce Rossa perché si impegni a far visita agli ostaggi a Gaza, non nascondendo la gioia nel vedere la figlia viva: «Il mio cuore si è quasi fermato».

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PER NETANYAHU non è di certo un buon periodo. Poco dopo la conferenza stampa di sabato sera il primo ministro aveva commesso l’ennesimo errore pubblicando sui social un post nel quale sollevava se stesso dalla responsabilità per il massacro del 7 ottobre, facendolo ricadere esplicitamente sui vertici della sicurezza. E lo faceva nel pieno della guerra. Benché già l’indomani mattina sia stato costretto a scusarsi e a ritirare pubblicamente le affermazioni, per la popolazione esasperata si tratta dell’ennesima prova della sua inettitudine a ricoprire il ruolo di leader del paese.

IL PERSISTENTE rifiuto di Netanyahu di rassegnare le dimissioni sta diventando ormai intollerabile per gli israeliani che, non riponendo nessuna fiducia in lui, temono per la propria incolumità in un frangente così delicato.
Sulla questione degli ostaggi e dei dispersi vi sono stati intanto alcuni sviluppi rilevanti. Un reperto osseo rinvenuto nella zona del festival di musica ha permesso di stabilire la morte di Shani Luk, l’artista di tatuaggi israelo-tedesca di 23 anni che si sperava essere tra i 239 ostaggi. Luk sarebbe stata assassinata ancor prima di venire condotta a Gaza, mentre del compagno non si hanno notizie. Nella notte tra domenica e lunedì è giunta invece notizia della liberazione della soldatessa Ori Magidish che al momento del rapimento prestava servizio come vedetta presso la base militare di Nachal Oz. L’operazione, frutto di un’azione congiunta dell’esercito e dell’intelligence, è stata salutata dal ministro della difesa Gallant come la riprova dell’importanza dell’azione di terra.

SI MUOVONO anche gli Stati uniti, ma sul fronte palestinese: il Dipartimento di Stato ha detto di essere al lavoro per l’uscita da Gaza dei cittadini palestinesi con cittadinanza statunitense (circa 500 persone), via Rafah, attraverso la mediazione egiziana.