C’è una bandiera nera col teschio, di quelle dei pirati, davanti alle due serrande abbassate del bar San Calisto. Intanto si crea un piccolo andirivieni, non si capisce bene se composto da avventori in cerca di alternative o da cittadini indignati. Qui, nella piazzetta romana a due passi da Santa Maria in Trastevere, è stata convocata la manifestazione di protesta, dopo che i sigilli della questura erano stati apposti allo storico locale. L’evento ufficialmente si sposta ancora un po’ più in la, a piazza San Cosimato. Ma è troppo forte la tentazione di rendere omaggio alle saracinesche del San Calisto, davanti alle quali suona senza sosta un’orchestrina jazz-funk.

Appoggiato all’ingresso c’è un mazzo di garofani rossi. Qualcuno ha lasciato una sigaretta, forse un tributo alle fumate sull’uscio con il bicchiere in mano. I messaggi vengono affidati a bigliettini. «La storia di Trastevere è passata da qui – si legge in uno dei post-it – Attori, barboni, ricchi e poveri. Tutti uguali, tutti insieme!». Ogni bar è un microcosmo con la sua filosofia un po’ minimalista. Di solito dal bancone non si disdegnano le discussioni alticce sui massimi sistemi, ma nella maggior parte dei casi si osserva una quotidianità e un modo di stare al mondo. Il maestro dello stile San Calisto forse era Luigi Marchetti detto il Vichingo, personaggio del quartiere portato sul grande schermo dallo sceneggiatore e regista Gianni Di Gregorio e scomparso pochi mesi fa. Di Gregorio lo descrive in un testo che uscirà sul prossimo numero della rivista Gli Asini. Il Vichingo era un reduce, espressione di un popolo gradualmente estromesso dal centro storico. «Stava sempre al bar San Calisto, che c’è sempre stato, con la stessa conformazione e la stessa atmosfera di adesso, tranne che prima c’erano più vecchietti ed era anche molto gelateria, c’era più popolo di Roma – racconta Di Gregorio – Mentre adesso ce n’è veramente poco, e molti di quelli che ci sono vengono da fuori perché sono stati estromessi dal quartiere a cominciare dagli anni settanta e ottanta. Però anche se quello abita a Monte Spaccato, quell’altro all’acqua Bulicante, ogni tanto fanno un pellegrinaggio al Calisto».

Il secondo giorno di interruzione della straordinaria quotidianità del San Calisto scuote le coscienze di molti perché evoca una questione più generale, che riguarda Roma e il paese intero, che ha a che fare con il modo in cui una parola d’altri tempi, il «decoro», sia tornata a dettare legge sulle forme di vita, per strada e negli spazi pubblici delle città. L’articolo 100 del Testo unico di pubblica sicurezza che ha permesso la chiusura del San Calisto porta la data del 1931. Garantisce discrezionalità nel sospendere la licenza di un esercizio nel quale «siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate». Allo stesso modo, nota più di uno degli avventori orfani radunatisi al San Calisto, la recente legge Minniti-Orlando ha introdotto una misura arbitraria come il cosiddetto Daspo urbano, pensato per allontanare dalle città i soggetti considerati molesti. Spesso e volentieri, dicono le prime analisi sull’applicazione della legge, si tratta di poveri, accattoni, personaggi problematici che fino a poco tempo fa non avremmo considerato minacciosi e che magari potevano ritrovarsi ai tavolini di questo bar, dove le birre costano ancora un euro e mezzo.

«Esercizio chiuso con provvedimento del Questore di Roma», recita l’ordinanza apposta all’ingresso. Qualcuno ha aggiunto a penna: «Perché non è la solita trappola per turisti».-