«I am the most violent of all the New Americans. Behind the color lies the cataclysm», dice di sé e della propria opera Mark Rothko nel 1959. Uno dei tanti aneddoti che si raccontano sulla sua vita riguarda una ricca collezionista che, negli anni sessanta, davanti a tele molto scure, sconcertata, chiede all’artista «qualcosa di rosso, di rosa, un quadro più ottimista, più festoso». «Rosa, rosso, giallo, arancione? – la replica sardonica di Rothko – Ma, mi scusi, non sono questi i colori dell’inferno?».

L’aneddoto, vero o falso che sia, di certo corrisponde all’indole estetica e caratteriale dell’artista, ed è riportato in un passaggio importante dell’acuto saggio che Riccardo Venturi dedica all’artista: À fleur de peau. Figurer le drame humain. Ricordando l’aneddoto insieme all’ultima opera lasciata incompiuta dall’artista, dipinta di rosso e quasi completamente monocroma, ancora sul cavalletto nel fatidico 25 febbraio del 1970, giorno del triste epilogo della sua vita, Venturi si riconnette al senso eminentemente tragico dell’opera di Rothko.

Il suo essere artista non è consistito in un astratto colorismo, in un meccanico rapporto tonale, o, peggio, decorativo tra i colori; ma in un intensissimo coinvolgimento emotivo, umano e culturale alla tragedia: a quella letteraria (fortissimo è infatti il legame dell’artista con il teatro di Eschilo, quello di Shakespeare e di Beckett), e a quella storica (Rothko, memore della sua infanzia in territorio russo, nell’attuale Lettonia, racconta all’amico Alfred Jensen della propria ossessione per una tomba che i cosacchi, durante un pogrom, avrebbero fatto scavare alle vittime ebree del suo villaggio prima di trucidarle, e di aver dipinto la tomba con tale partecipazione da non essere più sicuro che il massacro non fosse accaduto davanti ai suoi occhi). E, a riprova della costante attenzione al tragico, sebbene i praticanti Zen lo indicassero come il loro artista di riferimento, Rothko ribadisce che la filosofia Zen non può essere nel suo orizzonte di pensiero in quanto non riconosce senso alla tragedia.

Tale saggio di Venturi è oggi presente nel catalogo dell’ampia retrospettiva dedicata, fino al 2 aprile 2024, dalla Fondation Luis Vuitton di Parigi al grande artista della Scuola di New York, curata da Suzanne Pagé e Christopher Rothko (catalogo in co-edizione Fondation Louis Vuitton e Citadelles & Mazenod, pp. 316, con 220 illustrazioni, € 45,00).

La mostra riunisce circa 115 opere provenienti dalle più grandi collezioni internazionali, seguendo un percorso cronologico dell’intera carriera dell’artista, dagli anni trenta del secolo scorso, cioè dai primi dipinti figurativi, passando per i cosiddetti Multiformes, fino all’astrazione «classica» dei lavori della maturità.

Una delle prime opere in esposizione è l’autoritratto del 1936, unico in tutta la sua produzione: l’artista (ancora Marcus Rotkovitch, che diviene Mark Rothko nel 1940), è un pittore riconosciuto che gioca un ruolo attivo sulla scena artistica newyorkese, molto amico di Adolph Gottlieb e di Milton Avery, di venti anni più anziano e che considera un maestro. Porta occhiali scuri che lasciano intravedere uno sguardo perso fuori campo, e la sua silhouette stilizzata risalta su uno sfondo piatto, monocromo, lavorato a tocchi espressivi. Sono passati più di dieci anni da una foto che lo ritrae studente alla prestigiosa università di Yale, su cui annota di suo pugno «I don’t look like this». Insomma, Rothko non si vede intraprendere una carriere di avvocato o ingegnere, e l’incontro fatidico con Art Students League a New York decide la sua vocazione artistica.

In mostra, i quindici dipinti eseguiti tra il 1935 e il 1940 e conosciuti con il titolo generico di Subway Painting, segnano una tappa originale nelle rappresentazioni di Rothko, soprattutto della figura umana, con composizioni complesse che dimostrano una padronanza del mezzo pittorico. Lo spazio è qui valorizzato nelle sue qualità architettoniche: il soffitto, le colonne, le rampe di scale, le ringhiere, come le tante cornici geometriche, linee verticali e orizzontali a partire dalle quali Rothko costruisce composizioni dove la figura umana, allungata, diviene parte del contesto in cui è inserita.

Ma già all’inizio del 1940 l’artista è alla vigilia di un nuovo cambiamento fondamentale. Nonostante tutti i suoi incessanti tentativi di creare un linguaggio capace di esprimere la condizione umana, prende coscienza dei limiti della rappresentazione. Di fronte a questa constatazione decide di abbandonare la figurazione e di non ritornarvi mai più. Per sua stessa ammissione: «Appartengo a una generazione fortemente interessata alla figura umana e l’ho studiata. È stato con la massima riluttanza che ho scoperto che non soddisfaceva le mie esigenze. Chiunque la abbia realizzata l’ha mutilata. Mi rifiuto di mutilare e ho dovuto trovare un’altra voce per esprimermi».

È quindi a partire dalla seconda guerra mondiale, vissuta indirettamente, che Rothko prende le distanze dal realismo, e sottopone a deformazioni e metamorfosi figure con attributi caratteristici dell’arte e dei miti dell’antichità greca. Come ad esempio accade in The Omen of the Eagle, del 1942, dove le teste appaiono fuse insieme all’interno di un apparente fregio e i torsi hanno arti inferiori frammentari o tendenti all’animalità.

E anche se molto forte è l’influenza surrealista, in Rothko vi è sempre la ricerca di un linguaggio personale. Così approfondisce sempre di più le forme astratte, mescolate ad altre più identificabili, come nel Sacrifice of Iphigenia, ancora del 1942, dove solo una mano minacciosa ricorda la storia del delitto, mentre elementi appena antropomorfi risaltano come forme campite in modo uniforme. Ad ogni modo, è dopo il 1943 che Rothko rinuncia definitivamente alla traccia della presenza umana. È il caso di Tiresias, dipinto molto enigmatico del 1944, da cui emerge forse un occhio, quello veggente, e due forme tondeggianti che potrebbero essere i seni del cieco androgino. I titoli delle opere di questo periodo esprimono il debito del pittore nei confronti del teatro greco, e non è un caso che, fino alla fine degli anni quaranta, Rothko continui a paragonare i propri dipinti a drammi teatrali.

«Self Portrait», 1936, Collection de Christopher Rothko; © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko – Adagp, Paris, 2023

Ed è in fondo il dramma della guerra troiana a costituire un mito capace di esprimere in modo atemporale l’insopportabile durezza di un’epoca storica fatta di devastazione e di persecuzioni, in particolare degli ebrei, verso cui le vicende della sua infanzia lo avevano reso particolarmente sensibile.

Tra la fine del 1946 e il 1949 Rothko passa da un surrealismo tendenzialmente biomorfico all’astrazione quasi totale. I lavori di questo periodo, noti come Multiforms, sono stati descritti come «pezzi di un puzzle pronti per essere assemblati», e aprono la strada alle composizioni di rettangoli molto più semplici e frontali che l’artista presenta per la prima volta alla Betty Parsons Gallery nel gennaio 1950. Queste opere astratte del periodo cosiddetto «classico», dalla radiosa e misteriosa cromìa spinta all’incandescenza, sono in particolare ben rappresentate in mostra con una settantina di opere, tra cui due installazioni eccezionalmente riunite: quella della Phillips Collection di Washington e quella dei Seagram Murals della Tate.

La mostra si conclude infine con le tele nere e grigie del 1969, insieme a sculture di Giacometti, come Rothko le aveva immaginate presentandole con Homme qui marche I nell’ambito di una commissione per il nuovo edificio parigino dell’Unesco. Alla fine Rothko si ritira dal prestigioso incarico, probabilmente per motivi di salute, ma questa opportunità sembra aver ispirato le principali qualità dei suoi dipinti: la severità del disegno, la tavolozza e la rigida divisione tra nero e grigio. Rothko considerava che la separazione orizzontale relativamente rigorosa di questi dipinti avrebbe controbilanciato la verticalità delle figure di Giacometti, mentre l’intensità dei colori si sarebbe integrata al timbro scuro del bronzo patinato dello scultore.

Giacometti era un artista molto ammirato da Rothko, e il loro umanesimo e la loro rigorosa coscienza dello spazio è oggi possibile rifletterla in questi luoghi, come la realizzazione postuma di un disegno caro al pittore: l’incontro di due anime che, come poche, hanno saputo interpretare con la propria opera l’immane tragedia del secolo breve.