Tracollo della moneta turca. Erdogan grida al complotto
Turchia In un solo giorno svalutazione del 15%, il 40% in pochi mesi. Il governo presenta un nuovo piano economico, ma non convince. Trump getta benzina sul fuoco di un’economia già debole, a monte il caso Brunson e l’intervento in Siria. Il presidente: «Questa è una guerra economica che non perderemo. Loro hanno i dollari, noi il nostro Dio»
Turchia In un solo giorno svalutazione del 15%, il 40% in pochi mesi. Il governo presenta un nuovo piano economico, ma non convince. Trump getta benzina sul fuoco di un’economia già debole, a monte il caso Brunson e l’intervento in Siria. Il presidente: «Questa è una guerra economica che non perderemo. Loro hanno i dollari, noi il nostro Dio»
«Loro hanno i loro dollari, noi abbiamo la nostra gente, i nostri diritti e il nostro Dio». Così il presidente turco Recep Tayyip Erdogan arringava la folla ieri nei pressi di Bayburt, sul Mar Nero, uno dei suoi feudi elettorali. Impossibile per lui eludere il tema: la lira turca crolla e getta tutti nel panico, investitori e cittadini.
Ma il reis dice di vedere il nemico e invita tutti alla calma: «Ci sono varie campagne in corso: non curatevene. Questa è una guerra economica che non perderemo». Chiede ai suoi cittadini di avere pazienza, di ricordare dove erano 20 anni fa, rassicurando che il futuro sarà anche meglio. Soprattutto, chiede di vendere i risparmi in dollari ed euro per acquistare lire turche: è dovere di patriota.
L’aveva già fatto più volte a inizio anno e chi l’ha ascoltato oggi si ritrova più povero, perché la lira ha perso il 15% del suo valore solo nelle ultime 24 ore, il 40% in pochi mesi. E che i cittadini non siano convinti dalle parole del leader lo dimostrano anche le transazioni di giornata, orientate in direzione opposta; in fuga dalla lira in caduta verso le valute rifugio.
Doveva pensarci il neo ministro delle finanze Berat Albayrak, genero del reis, a rassicurare cittadini e mercati con la presentazione del nuovo piano economico per il paese. Ha annunciato un approccio «decisionista» alle politiche economiche, ha garantito l’indipendenza della banca centrale (negli ultimi mesi rimasta quasi inerte e i cui vertici sono divenuti di nomina presidenziale), ha promesso un tasso di crescita al 3-4% e un’inflazione da ricacciare sotto il 10%.
Doveva rassicurare e non c’è riuscito, snobbato da una comunità economica che non accetta più il miscuglio di promesse e ideologia, ma chiede fatti.
A gettare altra benzina sull’economia turca in fiamme ci ha pensato il presidente americano Trump. Con un tweet al fulmicotone ha annunciato l’innalzamento dei dazi sui metalli esportati dalla Turchia, colpendo così l’unico punto positivo del deprezzamento della lira turca: la maggior competitività di esportazione. I due paesi Nato sono ai ferri corti.
Al centro della querelle c’è il pastore Andrew Brunson, in stato di arresto da oltre un anno. I turchi lo considerano collegato al tentato golpe del 2016, per gli americani è invece la vittima di un complotto giudiziario. Le parti si sono incontrate più volte, ma la politica di «scambio dei prigionieri» intrapresa da Ankara, che vuole l’estradizione dell’imam Fetullah Gülen, non ha funzionato. Anzi, il passaggio di Brunson dal carcere ai domiciliari ha fatto infuriare ancora di più la Casa bianca, che per la prima volta ha introdotto sanzioni economiche contro un paese Nato.
Colpiti in particolare i ministri di giustizia e interni, ritenuti «responsabili diretti»: i loro beni sono stati congelati e gli è proibito l’ingresso negli Usa. Ma Erdogan non molla, si sente sostenuto dal popolo e ribatte: «Nessuno può forzare la mano al popolo turco con sanzioni e minacce. L’unica soluzione è la calma e la diplomazia».
Le sanzioni possono infatti frustrare l’economia turca, ma non intaccano la sua posizione di leader politico del paese, soprattutto dopo il tentato golpe, in cui quasi tutti i turchi vedono la lunga mano dei servizi segreti americani. Ma se Brunson è l’occhio attorno a cui ruota il ciclone, sono anche altri i temi che dividono i due paesi.
A cominciare da quelle sanzioni all’Iran che Washington ha deciso di reintrodurre, ma che il governo turco non ha intenzione di appoggiare. La Turchia importa dall’Iran gas a prezzo favorevole e dialoga con Teheran e Mosca sul destino della Siria. Abbracciare la linea dura di Trump sull’Iran equivale a far saltare il banco. Non è un caso poi che ieri una delle prime chiamate di Erdogan sia stata al presidente russo Putin.
Ufficialmente per parlare di Siria, ma la concomitanza delle dichiarazioni del premier russo Medvedev, che accusa gli Usa di guerra commerciale, spinge i leader di Russia e Turchia ancora più vicini. Le sanzioni americane, se non otterranno in fretta gli effetti sperati, potrebbero rivelarsi per Trump un disastro politico.
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