Tra verità e finzione, la gioiosa parabola indie dei Pavement
Venezia 81 Il rockumentary di Alex Ross Perry sulla band, presentato nella sezione orizzonti
Venezia 81 Il rockumentary di Alex Ross Perry sulla band, presentato nella sezione orizzonti
La reunion dei Pavement del 2022 non ha avuto l’eco isterica che in questi giorni circonda quella annunciata degli Oasis, ma il gruppo californiano-newyorchese del cantante Stephen Malkmus, culto dell’estetica slacker anni ‘90, stessa categoria di Nirvana e Sonic Youth coi quali hanno condiviso concerti e tournee, è finito al centro di un’affettuosa macchina celebrativa messa in piedi dal regista Alex Ross Perry, che ha presentato a Venezia un resoconto visivo dell’operazione, celebrazione, mescolando generi e stili del cinema musicale e il ripasso per sommi capi di una trentina di canzoni della band.
40enne, fan dei Pavement, Ross Perry ha scritto il paradossale musical Slanted! Enchanted! andato in scena a New York, e già l’idea di farne uno con balletti, cori, ballerini in calzamaglia e scaldamuscoli su vecchie canzoni indie rock dai testi ironici e intelligentissimi è qualcosa. Quindi ha inventato un finto biopic, una parodia di quelli sui Queen o Elton John, pieno di battute stereotipate e clichè visivi, chiedendo ad alcuni giovani attori (tra loro Joe Keery di Stranger Things) di girare una specie di lungo trailer, con backstage, provini e interviste.
SE TRATTI i Pavement come fossero i Beatles, «la band più importante e influente del pianeta» recita la didascalia all’inizio del film, seguire gli sforzi degli attori per entrare nei panni di Malkmus, copiando le inflessioni della sua voce, discutendo di sottigliezze psicologiche con tutta la vacua serietà delle interviste all’attor giovane, la parodia è comprensibile e divertente. Qui Ross Perry dialoga a distanza con la madre di tutti i biopic, l’annunciato film su Dylan con Timothee Chalamet. Allo stesso modo all’epoca i Pavement nelle loro canzoni citavano gli Smashing Pumpkins («non si capisce niente e non m’importa») o altri colleghi con perfidia e furbizia mediatica.
MOLTE di quelle canzoni erano gioiellini metatestuali. Una viene ripetuta più volte, dice: «Mi era vestito per fare successo/ ma il successo non è mai arrivato». Continua: «Sono il solo che ride alle tue battute anche quando non fanno ridere/ Non fanno mai ridere». All’epoca, il bersaglio era lo stile della musica come professione. Le interviste per Mtv sempre sospese tra lo scherzo e l’imbarazzo, Ross Perry ne usa parecchie nell’apparato d’archivio che completa la parte nostalgica del film. Della celebrazione dei Pavement, scomparsi dai radar da una decina d’anni (Malkmus però aveva fatto dischi per conto suo), faceva parte anche l’apertura di un museo temporaneo a New York, ironico pure quello. Tra le vecchie t-shirt e le scalette originali dei concerti erano esposte le manette con le quali nel 1999 il cantante si legò a un microfono durante un concerto, per denunciare la noia nella quale era piombato dopo 7 anni di carriera e 4 album. Sciolse la band. Ross Perry decide di ambientare nel giorno dell’inaugurazione l’entrata in scena di Malkmus e degli altri (il suo coautore e amico d’infanzia Scott Kanenberg), quasi sessantenni con famiglia, figli, barbe grigie e più meno quello che si mettevano addosso da ragazzi ma qualche taglia in più.
NON IMBRACCIANO strumenti (abbiamo già visto le prove per i concerti), si confondono tra il pubblico di un esibizione di band giovanissime – le ottime Soccer Moms – che omaggiano il loro repertorio. Perry ci ha già mostrato come alcune canzoni dei Pavement sopravvissute al tempo siano finite di recente tra i balletti virali di Tik Tok, e come Malkmus sia stato citato in Barbie. Quello al museo risulta soprattutto un momento di grande tenerezza, il cambio di atmosfera che completa il film e dà un senso alla storia di una band che cantava della convenienza di una «range life» una vita nei limiti («dopo il bagliore, la scena, il palco/ ci sono cose che non dimenticherai mai (…) fuori sullo skateboard/la notte sta arrivando»), titolo che il regista ha dato al suo biopic mancato.
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