Nuvole nere, molto nere, all’orizzonte. Non ci riferiamo all’orientamento politico del futuro governo italiano, ma alle tendenze economiche mondiali. La recessione è ormai scontata, almeno in Europa. Il 68% degli investitori americani e il 92% di quelli europei ne sono certi. La stessa banca centrale della Germania ha dipinto scenari foschi per il terzo e quarto trimestre. Il problema non è tanto stabilire se ci sarà la frenata, ma valutare la sua entità cercando di comprenderne le ragioni. Il costo dell’energia quintuplicato in Europa, e salito in tutto il mondo, sta giocando un ruolo chiave, aumentando le incertezze, frenando gli investimenti e i consumi, ma legare gli scenari recessivi solo al conflitto militare e all’inflazione energetica sarebbe miope.

Qualche indizio? La frenata dell’economia cinese, ad esempio, che quest’anno crescerà meno di quella italiana, è condizionata molto di più dall’esplosione della bolla immobiliare che non dal conflitto russo-ucraino. Anche dall’altro lato del Pacifico cresce una tendenza recessiva, ma negli USA la bolletta energetica è 3 volte inferiore a quella europea. Le borse confermano problematiche strutturali. Wall Street dai massimi di inizio anno è scesa del 23,4%, in linea con la media dei listini mondiali, ma molti analisti ritengono la «correzione» tutt’altro che finita. Anche l’inflazione è solo in parte spiegabile con il boom del costo dell’energia.

Negli Stati uniti l’indice che misura la crescita dei prezzi, al netto di alimentari ed energia, segna un +6,3%. Negli Usa c’è stata una componente da domanda nell’innesco del rialzo dei prezzi, ma il suo perdurare conferma che siamo di fronte a un’inflazione da offerta e da costi, legata innanzitutto all’accorciamento delle catene del valore dopo gli sconquassi della pandemia e al ritorno in grande stile della geopolitica. La deglobalizzazione selettiva costa, il protezionismo costa, non dovremmo sorprenderci. Ciò che invece potrebbe sorprendere sono le scelte delle principali banche centrali che, apparentemente, puntano tutto sul tentativo di contenere la fiammata inflazionistica attraverso una politica monetaria più restrittiva. La Fed ha alzato i tassi di 75 punti base ed entro fine anno lo farà per altri 125.

La Bce dopo il rialzo del 8 settembre sembra più incerta sulla velocità della crescita, ma è chiaramente intenzionata a seguire la linea statunitense. La stretta monetaria nelle intenzioni dovrebbe riguardare anche i titoli di debito pubblico in mano alle banche centrali. Dopo la fine degli acquisti «non convenzionali» di titoli di stato, la Bce sta solo rinnovando quelli in scadenza, ma dal 2023 dovrebbe dismettere anche questa pratica. Una politica restrittiva problematica. In un contesto recessivo e con un’inflazione non legata alla domanda, una tale orientamento spinge verso la stagflazione.

Parafrasando Churchill si potrebbe dire che le banche centrali tra recessione e inflazione hanno scelto la recessione e avranno l’inflazione. Ma questa politica monetaria potrà veramente reggere alla crisi? I titoli di Stato statunitensi a lungo termine vengono remunerati meno di quelli a breve. Segno di una crisi in arrivo, ma anche che i mercati, come afferma Morya Longo, sembrano non credere nella tenuta di questa condotta rigorista. Di fronte alla recessione, che l’economista Nouriel Roubini, tra i pochi ad aver previsto quella dei subprime, si attende «lunga», molti operatori e istituzioni finanziare ipotizzano che non ci sarà la forza di riportare i tassi d’interesse a valori d’altri tempi.

La profondità della crisi imporrà nuovi soccorsi monetari alla finanza e all’economia? Difficile dirlo con certezza, ma è molto probabile. Rimane un problema in ogni caso, l’espansione economica costruita sull’inflazione finanziaria e la stabilità dei prezzi al consumo non sembrano essere più un’opzione, ma un’altra visione non si è ancora fatta strada al netto della difesa pragmatica dei propri interessi.