È il diciottesimo giorno della ventunesima edizione dei mondiali di calcio e finalmente un pronostico fila liscio: per la sesta volta consecutiva in una fase finale della Coppa del Mondo (la prima nell’esordio della celebre edizione del ’50), il Messico non riesce a segnare nemmeno un gol al Brasile; alla fine è 2-0, nell’intensa partita che lancia i verdeoro in direzione di una possibile grande semifinale con la Francia e che fa esplodere definitivamente la stella di Neymar in questa competizione. Mentre dall’altro lato del tabellone, quello che si completerà stasera, è già certa una circostanza clamorosa: a contendersi la finale di Mosca del 15 luglio sarà una tra Inghilterra, Colombia, Svezia, Svizzera, Croazia e Russia.

Salvo che per la prima, per tutte le altre si tratterebbe di un esordio assoluto. Già, la Russia, chi l’avrebbe mai detto. Non i giornalisti – ieri nella zona mista dello stadio Luzhniky erano increduli e poi commossi al passaggio degli eroi della Sbornaja; non i tifosi, che ieri mattina ancora dovevano tornare a casa dopo una delle più grandi notti di festa che Mosca ricordi (si sono visti giganteschi orsi di pezza, bagni nelle fontane, infrazioni del codice stradale che in tempi di pace sarebbero stati puniti con poco meno del carcere); ma ci credevano l’allenatore Cherchesov e i suoi uomini, che ha dovuto convincere uno ad uno, ha rivelato, a mettere da parte l’orgoglio per affrontare la Spagna nell’unico modo possibile: difendendosi.

Neymar in un contrasto durante Brasile Messico 2-0, foto La Presse

È stato un regalo inaspettato per Putin – l’altro ieri sera assente al Luzhniky, sostituito da Medvedev – che già si può far bello di tre settimane di mondiale scivolate via quasi senza intoppi. Con la soddisfazione dei quasi 5 milioni di turisti-tifosi sbarcati in Russia – scarrozzati gratis in treno tra le varie città sede – con i complimenti delle federazioni e degli atleti (Schmeichel ieri ha parlato di «organizzazione perfetta»). E con i problemi nascosti sotto il tappeto: dalle proteste contro la nuova riforma pensionistica alle uscite imbarazzanti dei suoi deputati, tra cui quella celeberrima di Tamara Pletnyova: «russe, non fate sesso con gli stranieri» (ieri il facebook russo VKontakte ha segnalato gli amministratori del gruppo Buceta Rosa, in cui vengono fotografate, derise e insultate le donne «beccate» per strada a parlare con i tifosi del mondiale).

La politica fuori dal calcio, è la regola numero uno del Mondiale Fifa; ma ieri era anche il giorno di Messico-Brasile, con i centroamericani in campo a poche ore dalla vittoria elettorale di Lopez Obrador. Né i membri della spedizione né i tifosi giunti qui per sostenere il Tricolor hanno potuto votare alle elezioni del primo luglio: secondo l’Istituto nazionale delle elezioni (INE) avrebbero dovuto registrarsi in anticipo, sebbene l’approdo del Messico agli ottavi di finale fosse tutt’altro che scontato. Nel frattempo il centrocampista Fabiàn aspetta di sapere l’entità della multa che gli spetta per essersi schierato apertamente con il Partito Verde Messicano (PME).

In Brasile l’anno elettorale coincide storicamente con quello del mondiale. Sociologi e politologi discutono da sempre su quanto incida il secondo sul primo. Poco, a quanto pare: nel 2002 la vittoria della Seleçao in Corea e Giappone anticipò di poco lo stravolgimento politico del trionfo lulista; nel 2014 il tonfo storico in casa contro la Germania non servì (non fu sufficiente?) per disarcionare una Dilma già minacciata da venti di tempesta. Quest’anno, lo dice una ricerca, i brasiliani aspettano con maggiore ansia la partita di ottobre che la prossima del Mondiale: «oggigiorno, la popolazione conosce meglio il giudice della Corte Suprema che il calciatore della Seleçao», è la battuta che gira sui social brasiliani (e che negli Usa non farebbe ridere nessuno). Pochi, tra i lulisti, indossano più la maglia verdeoro della nazionale, assurta a simbolo delle manifestazioni pro impeachment di Dilma.

Lula, però, la Coppa del Mondo la guarda. E non solo: manda dispacci quotidiani a Zè Traiano, il vecchio amico di Sòcrates che conduce un programma di calcio sulla rete TVT. Dalla sua cella nel carcere di Coritiba, l’ex presidente difende Neymar ed elogia l’attuale ct Tite, un tempo tecnico del suo Corinthians (ma all’epoca lo paragonava criticamente alla sua delfina Rousseff: erano entrambi «troppo difensivisti»).