Per comprendere che strano animale politico è il M5S, gli schemi con cui lo si è osservato si sono rivelati spesso parziali, o presto superati dalle vicende che ha vissuto questo non-partito, come lo definì il suo fondatore. Le facili profezie che, in varie occasioni, ne hanno preannunciato l’implosione finale si sono rivelate fallaci. Resta il fatto che difficilmente gli scenari futuri della politica italiana potranno prescindere da una riflessione sul ruolo e la presenza di questa forza politica.

Il M5S è stato un soggetto altamente instabile che ha vissuto, dal 2013 ad oggi, molte mutazioni e anche un notevole ricambio della sua stessa base elettorale. Gli elettori del M5S sono oggi in gran parte elettori con una storia di sinistra: nonostante il forte calo rispetto alla punta massima del 2018, il notevole 15% raggiunto il 25 settembre 2022 non è stato più l’effetto di una collocazione “anti-sistema”, quanto di una circostanza che pochi hanno notato: il M5S è stato l’unico partito che, dopo un decennio e oltre di governi “tecnici” o di maggioranze anomale, ha potuto rivendicare di fronte ai suoi elettori i risultati concreti della sua presenza al governo.

Questo dato ha sempre più trasformato il M5S in quello che viene definito un partito single-issue, ossia un partito che si caratterizza per alcune battaglie identitarie e che su questo costruisce la sua narrazione, senza alcun bisogno di proiettarsi in una visione d’assieme. Bandiere programmatiche, tuttavia, come il RdC, che hanno collocato comunque il M5S su un versante politico lontano dalla destra.

Ma allora, come mai il M5S rifiuta di definirsi come un “partito della sinistra” e anche un osservatore esterno sente come impropria questa definizione? La risposta non può che essere una, purtroppo: se la “sinistra” è stata il Pd dello scorso decennio, la disconnessione politica di questi elettori con questa sinistra è stata profonda, non può essere facilmente ricucita. Per quanto, ovviamente, dalle parti del Pd ci possano sperare o puntare, sarà comunque un lavoro improbo e di lunga lena.

Gli stessi dirigenti ed elettori del M5S mostrano di avere una comprensione di sé poco interessata ad una disputa nominalistica o alla preoccupazione di “salvare” la sinistra, in quanto tale. Fenomeno poi vistoso nelle elezioni locali, dove in pratica molti elettori “politici” del M5S non sentono alcuna particolare motivazione al voto, sia quando il M5S corre da solo, sia quando si trova in coalizioni con il Pd.

Spesso, le micro-analisi elettorali sono più utili dei grandi scenari: a Pisa, ad esempio, circa ¾ degli elettori M5S di settembre (che valevano l’11%) si sono astenuti; ma non si può dire che questo nasca dal rifiuto dell’alleanza locale con il Pd, giacché nella vicina Massa, dove il M5S correva invece contro il Pd, insieme ad Up (Unione popolare), i voti passano dal 14% al 2,7%.

E non possono non sorgere interrogativi sulla concezione stessa della politica che hanno questi elettori, forse il frutto avvelenato di tanti anni di pessimi esempi. Nonostante, poi, i più volte annunciati progetti di costruzione dell’organizzazione territoriale, è evidente la sostanziale inconsistenza di questa presenza.

Elemento che va letto insieme ad un altro dato di fondo, ossia l’accentuato verticismo della leadership: tutto, di fatto, si accentra nelle mani di Conte (che continua ad essere ai vertici delle classifiche sulla popolarità: ma quanto corre il rischio di logorarsi?)

Da tutto questo nascono non pochi problemi, per la futura costruzione di uno schieramento alternativo alla destra. Ci vuole pazienza e tenacia, e spirito unitario, da parte del PD; ma anche i vertici del M5S dovrebbero provare ad esercitare una qualche forma di “pedagogia” politica verso i propri elettori, ricorrendo ad un argomento che peraltro hanno già usato per giustificare persino il governo con la Lega: le alleanze sono necessarie per ottenere dei risultati. E tuttavia, si deve sgombrare il campo da un equivoco. E’ pericoloso e illusorio pensare che Pd e M5S possano farsi concorrenza nelle urne: sono elettorati solo in piccola parte sovrapponibili, e quindi conquistabili a spese dell’altro.

Le diffidenze reciproche pesano. I sondaggi settimanali, con le variazioni di pochi decimali, non significano molto; ma se guardiamo i dati da ottobre ad oggi emergono alcuni indizi importanti: negli ultimi due mesi, dopo l’elezione di Elly Schlein, il PD è risalito fino al 20-21%, dopo la depressione acuta post-elettorale, che aveva consentito il sorpasso del M5S. Ma il recupero del Pd non avviene a scapito del M5S, che anzi rimane stabile ai suoi livelli (15-16%). Ne viene fuori una semplice lezione: non serve a nulla una guerra tra Pd e M5S, sono elettorati tra i quali, almeno a breve termine, non ci sono molti vasi comunicanti, come peraltro è chiaro anche dalla distribuzione territoriale del voto. E sono elettorati anche socialmente molto diversi, ma proprio per questo potenzialmente complementari: con un Pd forte tra i ceti medi e medio-alti, con elevati livelli di istruzione, e il M5S molto presente tra i gruppi sociali più in difficoltà sul piano economico.

E quindi, non di concorrenza si deve trattare, ma di emulazione: si impegnino, sia il Pd che il M5S, a recuperare ciascuno il proprio potenziale di voto, attingendo al bacino enorme dell’astensionismo. Per ridurre il quale, però, bisogna cominciare a mandare un qualche messaggio unitario, in vista delle prossime elezioni: bisogna che gli elettori comprendano che la partita è aperta, che si corre per vincere (o per ottenere qualcosa), non per il gusto di partecipare (perché, se no, a quel punto, molti continueranno a restare a casa).