Tra la morte e la vita. Corridoi chiusi per Mariama e le altre
Inferno Libia Una giovane migrante africana racconta la sua fuga dall’orrore del «porto sicuro», con in braccio il frutto delle violenze subite
Inferno Libia Una giovane migrante africana racconta la sua fuga dall’orrore del «porto sicuro», con in braccio il frutto delle violenze subite
Per cinquanta giorni militari, poliziotti e uomini d’affari libici hanno abusato di lei come di altre giovani migranti africane. Rapite e tenute in ostaggio a Zuwara, centro costiero libico a metà strada tra Tripoli e il confine tunisino, all’interno di un edificio diroccato, ma con porte e finestre al loro posto per non farle scappare.
Ammassate a terra come bestie, costrette ad almeno 4-5 rapporti al giorno: «Chi si rifiutava veniva picchiata e torturata. Ho visto almeno un paio di ragazze morire vicino a me, stremate da settimane di violenze. Sono riuscita a sopportare quell’orrore e ad andare avanti, sperando di sopravvivere. Non poteva finire così la mia vita, mi dicevo, dopo quanto avevo passato».
MARIAMA KAMARA È SCAPPATA dal suo Paese, la Sierra Leone, nel 2016. Ha quasi 29 anni, due occhi grandi e una forza interiore fuori dal comune. L’8 ottobre 2018 è stata rapita a Zuwara da una banda locale. Stava cercando, per la terza volta, di salire a bordo di una barca o di un gommone per raggiungere l’Italia. Le prime due volte la guardia costiera tripolina aveva recuperato i naufraghi, tra cui lei.
Poi il giorno più nero: «Mi hanno presa alla periferia di Zuwara gli uomini di una gang chiamata Asma Boys, specializzati nel rapire ragazze da avviare alla prostituzione. Sono rimasta dentro quel tugurio per diverse settimane, assieme ad altre decine di ragazze. Ero la loro schiava e dovevo sottostare a tutte le violenze, mi davano da mangiare una volta al giorno. Costretta a rapporti sessuali violenti non protetti, presa a botte, le sigarette spente sul corpo. Tutti segni che mi porterò dietro a vita. Poi il 26 novembre, grazie a una guardia di quella prigione che si è impietosita e ci ha aperto la porta, io e altre ragazze siamo scappate. Restare in Libia era troppo pericoloso, così ci siamo messe in cammino nel deserto e via terra, pochi giorni dopo, abbiamo varcato il confine con la Tunisia dove la guardia nazionale ci ha recuperato e messo in un centro della Mezzaluna Rossa».
Proprio lì, a Medenine, capoluogo dell’omonimo governatorato, 600 km a sud di Tunisi, l’abbiamo incontrata. Le cose erano cambiate rispetto a quei giorni terribili dell’autunno 2018, c’era una novità: «A causa di quei rapporti sessuali sono rimasta incinta e il 1° luglio ho messo al mondo due gemelli. Li ho chiamati Mongi e Wael, i nomi di due persone che in questi mesi durissimi mi hanno aiutata (uno, Mongi Slim, è il direttore della Mezzaluna Rossa di Medenine, ndr). Non ho avuto dubbi sul fatto di tenerli, anche se, viste le modalità e la difficoltà in cui mi trovo, molti mi avevano consigliato di darli in affido o in adozione. Alla fine ho deciso così, in fondo sono i miei figli. Il problema ora è capire come andare avanti. Potrei restare in questo centro, qui sono accoglienti, ma per quanto tempo? Il mio obiettivo è raggiungere l’Europa, la Germania, la Svezia e, perché no, l’Italia, per poter garantire un futuro migliore ai miei bambini. Purtroppo non è facile e finora, nonostante la mia situazione, non ho avuto risposte dalle istituzioni. Vogliono costringermi a rischiare la vita mia, di Mongi e Wael in mare, salpando clandestinamente dalla Tunisia verso l’Italia».
Le alternative per lei sono limitate e insidiose. Non facendo parte delle sette nazionalità (somala, eritrea, etiope, sudanese, yemenita, palestinese e siriana) che consente di rientrare nei Corridoi umanitari dell’Unhcr verso l’Europa, potrebbe, tramite l’Oim (l’altra agenzia Onu per le migrazioni, molto attiva in nord Africa) essere trasferita nel centro di transito di Agadez, in Niger; oppure, l’ipotesi peggiore, rientrare in Sierra Leone.
LE REGOLE SONO QUESTE: «Sono scappata da un villaggio nel distretto di Kono, al confine con la Guinea Conakry, per non finire nella rete della Bondo Society (una sorta di setta che impone usi e costumi sessuali alle donne, ndr) – dice Mariama -. Sono scappata proprio a causa di quell’associazione di cui mia nonna era una dirigente. Volevano sottopormi a una seconda mutilazione genitale, dopo la prima quando ero ancora una bambina».
Con Mariama la vita non è stata tenera, specie negli ultimi tre anni. Lei come altre migliaia di donne, due volte vittime di migrazioni forzate, nella maggior parte dei casi trasformate in oggetti da violare nell’infermo di un Paese, la Libia, che qualcuno, il nostro governo e larga parte dell’opinione pubblica italiana, hanno ancora la forza di considerare un «porto sicuro».
Quanto meno Mariama è viva e proietta la sua immagine futura nelle due creature che sta crescendo. Nonostante tutto, molte, paradossalmente, sono state meno fortunate di lei. Rose Marie, ad esempio, aveva più o meno la sua età ed era partita dal Niger. A fine maggio del 2016 in Libia, a Zuwara anche lei è stata buttata sopra un gommone diretto verso l’Italia.
Qualcosa è andato storto: «Il gommone ha iniziato a imbarcare acqua ed è colato a picco. L’sos era stato subito lanciato. Quando uno dei pescherecci della marineria di Zarzis è arrivato sul punto c’erano alcuni migranti vivi, subito recuperati. Purtroppo il cadavere di Rose Marie galleggiava a pelo d’acqua. Era appena morta».
Chamseddine Marzoug lavora per la Mezzaluna Rossa di Zarzis e nel “tempo libero”, da cinque anni, si occupa di dare una degna sepoltura alle vittime non identificate dei naufragi di migranti nel sud della Tunisia. A lui si deve la creazione del «Cimitero degli sconosciuti», alla periferia di Zarzis: un arido fazzoletto di terra dove oggi riposano i resti di oltre 400 persone.
Tra cui quelli di Rose Marie: «Di lei sappiamo nome e provenienza grazie a uno dei superstiti di quel naufragio. Il suo corpo senza vita è stato recuperato in mare il 27 maggio del 2016 e portato alla morgue dell’ospedale di Zarzis. Non essendo stati in grado di rintracciare la sua famiglia, in quanto priva di documenti, invece di finire in un ossario comune l’ho sepolta nel mio cimitero. Era giovane, bella e le sarebbe bastato poco per salvarsi».
LA MEZZALUNA ROSSA sta portando avanti le pratiche con le autorità locali affinché venga concessa un’area più idonea attraverso un progetto ben strutturato. Fino ad allora Chamseddine fa tutto con le proprie forze, con puro spirito volontaristico.
E il terreno è finito: «Ho dovuto scavare tombe su due piani perché non mi posso allargare. Pochi giorni fa c’è stato un altro, terribile naufragio (all’inizio di luglio, 82 corpi recuperati a largo delle coste tunisine, ndr), molti cadaveri attendono di essere sepolti, ma qui non c’è più spazio. Perché lo faccio? Queste persone meritano almeno una degna sepoltura e tanto rispetto».
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I transiti sul confine tunisino sono triplicati
È triplicato negli ultimi sei mesi il numero di persone che varcano il confine terrestre tra Libia e Tunisia per cercare poi da lì di raggiungere l’Europa via mare. A dirlo è un rapporto presentato ieri dalla ong Forum tunisino dei diritti sociali ed economici. Si è passati da 417 persone nella prima metà del 2018 alle attuali 1008 nello stesso periodo di quest’anno.
«La maggior parte di coloro che sono arrivati vogliono intraprendere il viaggio per mare verso l’Europa ma alcuni scappano della condizioni di insicurezza della Libia», si legge nel rapporto in arabo tradotto dal sito di Al Arabiya. Il valico di Medenine è il punto di attraversamento più importante, convogliando l’84% degli arrivi.
Ma si continua a tentare anche via mare: i guardiacoste tunisini mercoledì scorso hanno sequestrato una imbarcazione con 90 migranti subsahariani in arrivo dalla Libia. Nei primi sei mesi dell’anno sono stati in tutto 1.266 i migranti intercettati nelle acque territoriali della Tunisia mentre la Mezzaluna rossa tunisina ha rimosso dalle spiagge meridionali della costa tunisina 82 corpi senza vita dopo l’affondamento di un gommone carico di migranti proveniente dal porto libico di Zuwara lo scorso 4 luglio.
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