Su un campo brullo e polveroso delle macchie nere si muovono in ordine sparso nella stessa direzione. A tratti si fermano, imbracciano le armi, attendono ordini e poi ripartono. Sono i militari israeliani alle porte di Nahal Oz, l’ultimo kibbutz prima di Gaza, da qui la recinzione che separa i due territori si può toccare, se non fosse che è elettrificata.

Il timron, la manovra, è quasi pronta. Lo ha detto il portavoce dell’esercito di Tel Aviv, Daniel Hagari, enumerando il numero di obiettivi, oltre 100, colpiti la scorsa notte a Gaza. L’impressione dopo l’ultimo checkpoint di Saad è che si entri in un’altra realtà. A Tel Aviv la vita è abbastanza ordinaria.

CI SONO gli allarmi e spesso si sentono boati nel cielo; qualche ragazzo si lamenta perché bar e locali sono chiusi, ma tanto la maggior parte dei giovani sono richiamati; le famiglie degli ostaggi cercano di organizzare conferenze stampa quotidiane e i manifestanti contro il premier Netanyahu urlano slogan ed espongono cartelli instancabilmente di fronte al ministero della Difesa.

Ma la vita va avanti con un occhio ai fatti propri e un altro alle notizie. Via via che ci si avvicina al sud lo scenario cambia. L’orizzonte si apre, i campi di cotone non raccolto e gli ulivi potati da poco fanno da sfondo a un sole che brucia ancora, nonostante siamo alla fine di ottobre. Alla fine dell’autostrada 25, quando persino sulla mappa non c’è più nessuna linea stradale, tutto cambia.

Qui non si passa senza permesso, perquisizioni a tutti i veicoli. Poi si entra in quello che per anni sarà ricordato come il triangolo del terrore per gli israeliani. A nord Kfar Aza, a sud Be’eri e in punta, verso ovest, Nahal Oz. Terra marziana, rossa e polverosa, spoglia, circondata da filo spinato e presidi militari.

Solcata da soldati con stivali rossastri come lei e gli elmetti con la retina, che oltre a proteggere dalle ustioni e a mimetizzare li rendono esseri senza volto che marciano con pesanti mitragliatrici, zaini ingombranti e antenne lunghe anche due metri che svettano dalle spalle un po’ curve sotto il peso dei giubbotti antiproiettile. Da lontano appaiono minacciosi, non hanno tratti riconoscibili, non li senti.

E sono tanti, un rumore alle spalle palesa la presenza di altri di loro dietro un terrapieno, anche loro equipaggiati di tutto punto e con le armi in braccio o a tracolla. La differenza in questo caso è sostanziale, chi le porta in braccio è perché ha in dotazione quelle più pesanti, spesso mitragliatrici dotate del treppiede e delle cartucciere che fuoriescono. Come quella del soldato Animal di Full metal jacket di Stanley Kubrick e, infatti, sono i soldati più prestanti a portarle.

GLI ALTRI hanno più ordinari fucili d’assalto, sia lo storico Galil, prodotto dagli anni ’70, sia il nuovissimo Tavor. Quando la schiera di macchie nere si avvicina li vedi in faccia: sono ragazzi. Maschi, non ci sono ragazze: nonostante l’esercito israeliano sia costituito parimenti da uomini e donne, queste non vengono utilizzate per le operazioni speciali dentro Gaza, se non in rarissimi casi. «Sarebbe un trauma enorme per i ragazzi vedere una compagna morire davanti a loro – spiega un militare di carriera – Come perdere la madre, troppi rischi di traumi postumi».

I ragazzi sono pronti, «faremo quel che è necessario» dicono ostentando sicurezza da volti spesso imberbi e che tradiscono la diversa composizione di Israele: askenaziti biondi e dagli occhi chiari, sefarditi somiglianti ai maghrebini o agli europei del sud, falascià di origine etiope e tante altre mescolanze etniche. Ma sono tutti in divisa sotto al sole e tra la polvere, alle porte di Gaza.

Gli ufficiali li tengono impegnati per evitare che si spazientiscano o perdano concentrazione. «Tra poco inizierà la nuova fase», spiega il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant. La prima, «impegno prolungato di fuoco su Gaza», è andata. Ora serve «una manovra di terra per l’eliminazione dei membri di Hamas e delle sue strutture». Poi verrà il momento di «eliminare i nidi di resistenza» e infine «la creazione nella Striscia di una nuova realtà di sicurezza sia per i cittadini di Israele sia per gli stessi abitanti di Gaza».

Il caporale che ci accompagna dentro Nahal Oz e mostra le abitazioni teatro di feroci combattimenti e racconta che il kibbutz è stato l’ultimo dove si è combattuto contro Hamas. Laddove negli altri alla sera del 7, o al massimo la mattina seguente, era già tutto finito, «qui gli scontri armati sono andati avanti fino al mercoledì seguente». Segno che la vicinanza alla Striscia ha influito molto.

MENTRE racconta per l’ennesima volta che i «terroristi fanno uso di captagon», appare una strana composizione. Appoggiato su un gradino un giubbotto antiproiettile palesemente non israeliano e un borsello da uomo di quelli che si portano a tracolla. Tra il giubbotto e il borsello una macchia marrone e gialla puzzolente da far vomitare e nel borsello due granate ancora intatte.

Su quel gradino un miliziano deve essere stato freddato prima di avere il tempo di lanciare le bombe ma con il tempo sufficiente per farsela sotto. «Basta», richiama il caporale, «è pericoloso qui». Si assicura che ci allontaniamo senza deviazioni e mentre torniamo alle macchine ci saluta dicendo «peace».