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Tra barbarie e malinconia, il western di A.B. Guthrie

Tra barbarie e malinconia, il western di A.B. GuthrieGeorge Inness, «Crepuscolo», 1875

Scrittori statunitensi L’abbandono al richiamo di un passato leggendario: a patto di abdicare alla vita. «Dolce, dolce terra», da Mattioli 1885

Pubblicato più di un anno faEdizione del 4 giugno 2023

La narrazione della frontiera americana è, per certi versi, essenzialmente legata ai modi dell’elegia. Quando Frederick Jackson Turner, primo storico a considerare l’espansione a ovest come un momento fondamentale nel consolidamento dell’ethos statunitense contemporaneo, presentò la sua celeberrima (e in seguito aspramente contestata) «tesi della frontiera»all’Esposizione mondiale di Chicago del 1893, l’epopea dei pionieri era già stata dichiarata conclusa, almeno ufficialmente, con il censimento del 1890. I toni di Turner sono celebrativi più che nostalgici, ma nell’esortazione dello studioso a mantenere vivo lo spirito della frontiera si può leggere anche la consapevolezza del fatto che un momento irripetibile nella storia della nazione era ormai alle spalle, e si desiderava strappare almeno parzialmente questa epoca alla pura fenomenologia storica per consegnarla alla mitografia.

Nella letteratura, il genere Western ha spesso affrontato il crepuscolo della frontiera in maniera ambigua, da un lato rafforzandone il mito, mentre lamentava la scomparsa di una terra vergine dalle infinite possibilità, ma d’altra parte dimostrandosi volutamente dissacrante nei confronti del trionfalismo nazionalista legato a quello stesso mito. Al confine tra queste due tendenze, il romanzo di A.B. Guthrie Dolce, dolce terra (traduzione di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, pp. 254, € 15,00) racconta il declino del selvaggio, libero West con tonalità decisamente malinconiche, perfino dolorose, consacrandosi al sentimento di una perdita insanabile, senza peraltro ritrarsi dagli aspetti più violenti di questo momento storico, e anzi scegliendo di fare piena luce sulla barbarie con cui il governo statunitense affrontò la resistenza delle popolazioni Native a quella che era a tutti gli effetti un’invasione su ampia scala. Pubblicato originariamente nel 1982, il romanzo dà un  seguito alle avventure di Dick Summers, personaggio già introdotto nel Sentiero del West (1949), opera che valse all’autore il Pulitzer per la narrativa. Summers è un vecchio idealista solitario, amico dei Nativi e animato dal loro stesso rapporto simbiotico con la natura. Circondato dall’avidità di pionieri ottusi e spietati, decisi a sfruttare una terra già in declino fino all’ultimo bisonte e all’ultima pagliuzza d’oro per soddisfare le logiche incalzanti di un mercato rapace, il protagonista è simbolo e sineddoche di una visione pienamente edenica: un vero e proprio Adamo americano lacerato tra l’idealizzazione di un passato incontaminato dal progresso e l’avanzare inarrestabile di una modernità incompatibile con il suo integralismo anarco-primitivista.

Nella ricerca pertinace, ma in definitiva utopistica, dell’ultimo angolo di natura selvaggia rimasta sul continente, Summers incarna quel lato del carattere americano istintivamente ostile alla modernità, e disperatamente proteso verso l’innocenza di una società organicamente legata all’ecosistema in cui vive, e ai suoi ritmi. Ma Guthrie mostra di sapere come la nazione non abbia mai davvero posseduto quella mitica purezza primigenia, e come abbandonarsi al richiamo di un passato leggendario implichi un abdicare alla vita i cui esiti saranno senz’altro funesti. Vero eroe tragico, Summers si muove ostinato in direzione contraria alla nazione, accompagnando l’epopea del West fino a quell’ineluttabile tramonto dal quale riemergerà come polvere e come mito.

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