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Torturata in cella, si toglie la vita l’attivista Lgbtqi+ Sarah Hijazi

Torturata in cella, si toglie la vita l’attivista Lgbtqi+ Sarah HijaziSarah Hijazi al concerto dei Mashrou' Leila al Cairo

Egitto Arrestata con altre 57 persone per aver partecipato nel 2017 al concerto della band libanese Mashrou' Leila e aver sventolato la bandiera arcobaleno, in carcere aveva subito brutali violenze

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 16 giugno 2020

Era il settembre 2017 quando Sarah Hijazi, all’epoca 27enne, salì sulle spalle di un amico e sventolò la bandiera arcobaleno. Era al Cairo, al concerto dei Mashrou’ Leila, band libanese conosciuta in tutto il mondo, ma vittima di censure in Medio Oriente (a partire dal Libano stesso) perché accusata di difendere i diritti Lgbqti+.

Sarah era un’attivista Lgbtqi+. Si è uccisa domenica in Canada, dove aveva trovato asilo dopo mesi di prigione in Egitto, torturata e violentata. Ha lasciato un biglietto dove chiede perdono, la depressione che viveva dopo l’esperienza del carcere l’ha sopraffatta: «Ho cercato di trovare redenzione e ho fallito. Quell’esperienza è stata troppo dura, e io sono troppo debole per resistere».

In prigione era finita per quel concerto e quella bandiera, una delle almeno 57 persone arrestate per aver partecipato all’evento dei Mashrou’ Leila, da allora banditi dall’Egitto. Unica donna a essere detenuta in una campagna di arresti durata tre settimane con raid nelle case, arresti e uso di app di incontri per individuare i sospetti.

All’epoca fu lo stesso procuratore generale Nabil Sadek (colui che, tra l’altro, si occupa della morte di Giulio Regeni, per cui l’Egitto parlò di incidente d’auto, droga e – appunto – relazione gay) a ordinare di investigare il caso della bandiera come minaccia alla sicurezza nazionale. Sarah era stata condannata, insieme ad altri, per «promozione della devianza sessuale e dissolutezza».

Era stata rilasciata su cauzione tre mesi dopo. Aveva già tentato il suicidio dopo quanto subito dalle guardie e da altri prigionieri: stupri, torture, umiliazioni. All’epoca la sua legale, Hoda Nasrallah, aveva raccontato: «È il solito gioco politico, soprattutto perché è una ragazza. Incitano altri detenuti, dicono “questa qui vuole che uomini e donne siano gay”, e loro la vessano. Ho visto graffi sulle sue spalle, mi è apparsa esausta. È stata picchiata».

Se l’omosessualità in Egitto non è reato, abusi e discriminazioni sono diffusi sul piano istituzionale e sociale. In carcere si va con altre accuse, immoralità, blasfemia e violazione delle leggi che vietano «pensieri e atti devianti contrari alla pubblica morale». Quando Patrick Zaki fu arrestato, una campagna mediatica apposita lo accusò di omosessualità come fosse un crimine, con commentatori tv e politici che infiammarono l’opinione pubblica accusando la comunità Lgbqti+ di ricevere fondi da non meglio precisati paesi esteri.

I numeri della repressione sono cresciuti sotto al-Sisi: dall’ottobre 2013 al marzo 2017, secondo l’ong egiziana Eipr, sono state detenute almeno 323 persone, 90 nel 2019.

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