Siamo al XIX rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia. Il primo risaliva al cambio di millennio e fu la straordinaria visione di un grande magistrato, Sandro Margara, che si trovava a capo del Dap a quel tempo, a consentirci di svolgere il nostro lavoro di osservazione delle carceri.

Di «stanchezza penitenziaria» scriveva Salvatore Mannuzzu, che introdusse il nostro primo rapporto. Esso si titolava «Il carcere trasparente». Eravamo nel lontano 2000. Mannuzzu stigmatizzava una retorica che non si trasformava mai in riforma e trasformazione sociale. Il carcere è un grande pachiderma difficile da spostare in avanti. Per riuscirci è necessaria tanta pazienza. Forte, tra gli operatori, è la stanchezza penitenziaria. Ci sono magistrati, direttori, comandanti, poliziotti, educatori, assistenti sociali, psicologi, medici, infermieri, mediatori culturali, volontari, insegnanti che sono chiusi dentro una routine che stanca, che scandalizza, che si ripete in modo grigio. Molti di loro sono persone eccezionali che “instancabilmente”, anche nei periodi più difficili dell’era repubblicana, hanno continuato a dirigersi verso un’idea di pena che non sia mera sofferenza o pura afflizione. E c’è chi, come è avvenuto nel carcere di Bari, ha avuto la forza e il coraggio di denunciare le violenze nei confronti dei detenuti di cui era venuto a conoscenza.

Il carcere è una enorme questione antropologica. I numeri drammatici che sono raccontati nel rapporto di Antigone non sono freddi numeri. A loro corrispondono nomi, storie, biografie, successi, delusioni, fallimenti, morti, figli, genitori, amori, tragedie. Se non capiamo che a ogni numero corrisponde una persona, non sarà mai possibile spostare l’asse della pena fuori dai confini di un’idea di carcerazione intesa come vendetta. Il sistema penale è fortemente selettivo. La questione carceraria è anche una questione di classi subalterne e di esclusione sociale. Negli istituti penitenziari troviamo un altissimo numero di persone povere, con problemi di dipendenza, affette da disagio psichico, sole, provenienti da Paesi lontani.

Il carcere è infine è anche una questione democratica. La tortura è stata considerata un crimine in Italia a partire dal 2017. Ci sono voluti 29 anni per adeguarsi agli obblighi provenienti dal diritto internazionale. Nel frattempo ci sono state le torture acclarate al G8 di Genova, nel carcere di Asti, le morti di giovani ragazzi come Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, le condanne della Corte Europea dei Diritti Umani. Dallo scorso novembre pende alla Camera dei Deputati una proposta di FdI che vorrebbe abrogare il delitto di tortura. In questo modo si metterebbero a rischio i processi in corso, a partire da quello per le brutalità commesse nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. In modo cauto anche esponenti del Governo hanno ribadito la necessità di mettere mano al delitto di tortura. Si legge, tra l’altro, nella relazione introduttiva della proposta di Fdi: «Il rischio di subire denunce e processi strumentali potrebbe, inoltre, disincentivare e demotivare l’azione delle Forze dell’ordine, privando i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro». È questa una motivazione che atterrisce. I poliziotti hanno bisogno di gratificazione sociale, turni di lavoro dignitosi, rispetto, prospettive di carriera. Non di mani libere. In questo modo si schiaffeggiano moralmente tutti coloro che indossano una divisa e si muovono nel solco della legalità.
*Presidente Antigone