L’inchiesta ha come obiettivo la conoscenza critica di ciò che si presenta come necessità indiscutibile, ma è in realtà frutto di rapporti di forza, scelte politiche e condizioni storico-sociali. Genere ibrido, a cavallo tra scienze sociali, giornalismo, rappresentanza sociale e azione politica, l’inchiesta è stata spesso di supporto a importanti azioni di riformismo radicale. Uno strumento che rappresenta un’alleanza tra la descrizione dei “problemi sociali”, la loro interpretazione teorica e la conoscenza trasformativa che ne deriva.

L’inchiesta promossa dalla Fondazione Di Vittorio sulle “Condizioni e aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori”, presentata il 26 ottobre a Roma, ci racconta le attese, le condizioni di lavoro percepite, i salari, lo stress e la fatica di più di 30.000 lavoratori occupati in imprese superiori ai 15 addetti, intercettati attraverso le reti sindacali della CGIL. Il 18,7% dei rispondenti sono rappresentanti (RSU, RSA e/o RLS) e il 63,5% sono iscritte/i (ma non rappresentanti), mentre solo il 17,8% non è né iscritta/o né rappresentante. L’inchiesta restituisce quindi il punto di vista di lavoratori vicini alla CGIL, con un’elevata incidenza di iscritte/i e rappresentanti sindacali. Una membership che – come emerge dalle caratteristiche socio-demografiche del campione – non intercetta chi lavora in imprese fino a quindici addetti, la popolazione più giovane, i meno istruiti, le regioni del mezzogiorno, i migranti.

Il quadro che emerge è proprio per questo preoccupante: se le condizioni di lavoro restituiscono una generale condizione di sofferenza, fatica, salari inadeguati, problemi di sicurezza, scarso investimento in formazione, tra i lavoratori con queste caratteristiche, la situazione non può che essere peggiore tra i lavoratori più deboli che non sono stati intercettati.

Cosa ci dice l’inchiesta della Di Vittorio? Se siamo per fortuna in un altro mondo rispetto a quello dell’inchiesta operaia di Karl Marx, scritta nel 1880 a due anni e nove mesi dalla morte dal barbuto di Treviri, che conteneva domande come: «Qual è l’età minima alla quale sono ammessi i fanciulli (maschi e femmine)?», i dati raccontano storie di resistenza operaia nella trincea di un modello di capitalismo a bassa crescita e scarsa innovazione, come è quello italiano.

Quasi la metà del campione (47,1%) è poco o per nulla soddisfatto della retribuzione. Considerando l’erogazione dello sforzo fisico, si rileva un’alta intensità del lavoro in termini di scadenze, ritmi e carichi, che si presenta in maniera elevata (“spesso”) per più di un rispondente su tre. I risultati evidenziano poi la presenza di livelli di sotto-inquadramento diffusi, con un rispondente su quattro che “spesso” deve assumere responsabilità eccessive rispetto alle mansioni. Considerando i rischi per la salute fisica, il 16,7% deve sollevare “spesso” dei carichi pesanti e il 7,9% lavora “spesso” in condizioni di pericolo (un’esposizione che sale al 17% per operai e tecnici, al 19,5% per i servizi socio-sanitari, al 27% nella pubblica sicurezza). Le aspettative sul futuro sono negative e il 68,6% dei rispondenti ritiene che si andrà verso una riduzione del personale.

Il post-fordismo avrebbe dovuto affrancare il lavoro dal giogo della gerarchia aziendale e dalla tecnocrazia dei tempi e dei metodi, rappresentata nell’immaginario dall’iconografia del film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Nulla di tutto ciò: il lavoro consente pochissimi gradi di libertà ai lavoratori e sul lavoro si ubbidisce e si esegue. La metà del campione non ha spazi di autodeterminazione degli orari e quasi il 40% non dichiara margini di scelta sui metodi, così come nessuna opportunità di definizione degli obiettivi (mai il 41,8%). La bassa autonomia si accompagna alla scarsa innovazione, dal momento che la maggior parte delle imprese in cui lavorano i rispondenti si caratterizza per una medio-bassa propensione all’innovazione, sia di processo che di prodotto o di tutela dell’ambiente. Inoltre, un rispondente su quattro (24,4%) giudica la prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza nella propria azienda come insufficiente e questa incidenza è maggiore proprio nelle imprese/enti meno innovative. Emerge del resto una importante relazione tra autonomia e innovazione: l’indice di autonomia è maggiore nelle imprese più innovative.

L’inchiesta della Fondazione Di Vittorio ci dice che il capitale chiede ubbidienza cieca proprio quando è meno innovativo, vive sui bassi salari e sulla scarsa partecipazione. Condizione, questa, che non dovrebbe interessare solo i rappresentanti dei lavoratori, ma anche le associazioni di rappresentanza degli interessi delle imprese e la classe politica. Le premesse per una “alleanza per l’innovazione” che metta al centro i diritti dei lavoratori e una loro mobilitazione come soggetto collettivo, il governo della tecnologia e la trasformazione ecologica, ci sono tutte.

@FilBarbera