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Torna l’inchiesta sul lavoro: tutele e sfruttamento

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Fondazione Di Vittorio-Cgil “Condizioni e aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori”. Le attese, le condizioni di lavoro percepite, i salari, lo stress e la fatica di più di 30.000 lavoratori occupati in imprese superiori ai 15 addetti

Pubblicato circa un anno faEdizione del 26 ottobre 2023

L’inchiesta ha come obiettivo la conoscenza critica di ciò che si presenta come necessità indiscutibile, ma è in realtà frutto di rapporti di forza, scelte politiche e condizioni storico-sociali. Genere ibrido, a cavallo tra scienze sociali, giornalismo, rappresentanza sociale e azione politica, l’inchiesta è stata spesso di supporto a importanti azioni di riformismo radicale. Uno strumento che rappresenta un’alleanza tra la descrizione dei “problemi sociali”, la loro interpretazione teorica e la conoscenza trasformativa che ne deriva.

L’inchiesta promossa dalla Fondazione Di Vittorio sulle “Condizioni e aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori”, presentata il 26 ottobre a Roma, ci racconta le attese, le condizioni di lavoro percepite, i salari, lo stress e la fatica di più di 30.000 lavoratori occupati in imprese superiori ai 15 addetti, intercettati attraverso le reti sindacali della CGIL. Il 18,7% dei rispondenti sono rappresentanti (RSU, RSA e/o RLS) e il 63,5% sono iscritte/i (ma non rappresentanti), mentre solo il 17,8% non è né iscritta/o né rappresentante. L’inchiesta restituisce quindi il punto di vista di lavoratori vicini alla CGIL, con un’elevata incidenza di iscritte/i e rappresentanti sindacali. Una membership che – come emerge dalle caratteristiche socio-demografiche del campione – non intercetta chi lavora in imprese fino a quindici addetti, la popolazione più giovane, i meno istruiti, le regioni del mezzogiorno, i migranti.

Il quadro che emerge è proprio per questo preoccupante: se le condizioni di lavoro restituiscono una generale condizione di sofferenza, fatica, salari inadeguati, problemi di sicurezza, scarso investimento in formazione, tra i lavoratori con queste caratteristiche, la situazione non può che essere peggiore tra i lavoratori più deboli che non sono stati intercettati.

Cosa ci dice l’inchiesta della Di Vittorio? Se siamo per fortuna in un altro mondo rispetto a quello dell’inchiesta operaia di Karl Marx, scritta nel 1880 a due anni e nove mesi dalla morte dal barbuto di Treviri, che conteneva domande come: «Qual è l’età minima alla quale sono ammessi i fanciulli (maschi e femmine)?», i dati raccontano storie di resistenza operaia nella trincea di un modello di capitalismo a bassa crescita e scarsa innovazione, come è quello italiano.

Quasi la metà del campione (47,1%) è poco o per nulla soddisfatto della retribuzione. Considerando l’erogazione dello sforzo fisico, si rileva un’alta intensità del lavoro in termini di scadenze, ritmi e carichi, che si presenta in maniera elevata (“spesso”) per più di un rispondente su tre. I risultati evidenziano poi la presenza di livelli di sotto-inquadramento diffusi, con un rispondente su quattro che “spesso” deve assumere responsabilità eccessive rispetto alle mansioni. Considerando i rischi per la salute fisica, il 16,7% deve sollevare “spesso” dei carichi pesanti e il 7,9% lavora “spesso” in condizioni di pericolo (un’esposizione che sale al 17% per operai e tecnici, al 19,5% per i servizi socio-sanitari, al 27% nella pubblica sicurezza). Le aspettative sul futuro sono negative e il 68,6% dei rispondenti ritiene che si andrà verso una riduzione del personale.

Il post-fordismo avrebbe dovuto affrancare il lavoro dal giogo della gerarchia aziendale e dalla tecnocrazia dei tempi e dei metodi, rappresentata nell’immaginario dall’iconografia del film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Nulla di tutto ciò: il lavoro consente pochissimi gradi di libertà ai lavoratori e sul lavoro si ubbidisce e si esegue. La metà del campione non ha spazi di autodeterminazione degli orari e quasi il 40% non dichiara margini di scelta sui metodi, così come nessuna opportunità di definizione degli obiettivi (mai il 41,8%). La bassa autonomia si accompagna alla scarsa innovazione, dal momento che la maggior parte delle imprese in cui lavorano i rispondenti si caratterizza per una medio-bassa propensione all’innovazione, sia di processo che di prodotto o di tutela dell’ambiente. Inoltre, un rispondente su quattro (24,4%) giudica la prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza nella propria azienda come insufficiente e questa incidenza è maggiore proprio nelle imprese/enti meno innovative. Emerge del resto una importante relazione tra autonomia e innovazione: l’indice di autonomia è maggiore nelle imprese più innovative.

L’inchiesta della Fondazione Di Vittorio ci dice che il capitale chiede ubbidienza cieca proprio quando è meno innovativo, vive sui bassi salari e sulla scarsa partecipazione. Condizione, questa, che non dovrebbe interessare solo i rappresentanti dei lavoratori, ma anche le associazioni di rappresentanza degli interessi delle imprese e la classe politica. Le premesse per una “alleanza per l’innovazione” che metta al centro i diritti dei lavoratori e una loro mobilitazione come soggetto collettivo, il governo della tecnologia e la trasformazione ecologica, ci sono tutte.

@FilBarbera

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