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Tommaso Ragno, una magica presenza

Tommaso Ragno, una magica presenza

Venezia 79/Intervista L'attore di cinema e teatro sarà alla Mostra con i film di Virzì e Mezzapesa

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 27 agosto 2022
Mario Serenellini ORROLI (SU)

Strappato di tanto in tanto alla scena teatrale, di cui è da oltre trent’anni magnifico protagonista, Tommaso Ragno è ora nel cast di due film in programma alla 79a Mostra di Venezia : Siccità di Paolo Virzì (di cui aveva già intepretato La pazza gioia) e, in concorso a Orizzonti, con Michele Placido e l’esordiente Elodie, Ti mangio il cuore, del conterraneo Pippo Mezzapesa. Da Davide Ferrario (Tutti giù per terra) a Mario Martone (Nostalgia), da Bernardo Bertolucci (Io e te) a Fernando Muraca (La terra dei santi), da Kim Rossi Stuart (Anche libero va bene) a Nanni Moretti (Tre piani), Tommaso Ragno è da un quarto di secolo un volto popolare del nostro cinema e delle serie tv.

Ma è soprattutto in teatro che si ritaglia ruoli di indimenticabile spessore: nella Trilogia delle villeggiatura interpretato con l’amico regista Toni Servillo (per stagioni intere in giro per il mondo, tra cui con grande successo in Francia a Bobigny) e negli incandescenti deliri di Emma Dante (Medea di Euripide) o nelle innumerevoli messinscene scespiriane di Carlo Cecchi (da La dodicesima notte a Sogno di una notte di mezza estate) o negli scavi in profondità di Luca Ronconi (Troilo e Cressida, Lo specchio del diavolo, Misura per misura), Mario Martone (Woyzeck e, prima, La seconda generazione, sulle tragedie greche), Massimo Castri (il triennio di lavoro sul Progetto Euripide). Voce magica di audiolibri (Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault) e Radiotre (le letture Ad alta voce di Dracula di Bram Stoker o Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde), l’attore pugliese, nato nel borgo suggestivo di Vieste 55 anni fa, non è estraneo al rito del teatro estivo all’aperto: con Iaia Forte (che ha letto L’isola di Arturo di Elsa Morante e poesie di Patrizia Cavalli) ha partecipato quest’anno al Festival di letteratura all’Isola d’Elba e, sempre con la Forte – che ne è la direttrice artistica, a fianco della vulcanica direttrice generale Rita Atzeri del «Crogiuolo» –, è stato protagonista nell’aspra Sardegna centrale del XIV NurArcheoFestival.

Serate di pietra e voce, teatro nel vento o nel sottosuolo. La Valle dei laghi, dove si svolge il Festival tra luglio e agosto, è terra madre, possessiva: la sua forze magnetica entra sotto pelle in animali e uomini (che muoiono pluricentenari). Il tempo, cui fanno da sentinella i nuraghi di quasi 4mila anni fa – costruzioni da fiaba pop-up, non di carta ma di macigno, come le piramidi –, è immobile, cioè spaziale. Il teatro è già qui, in questo fantasy planetario. È come trovarsi in un perpetuo mercato dell’usato: usato millenni fa. La grande idea del Festival (che coccola gli ospiti con i menu dello chef di Istellas, Davide Fonda, e la ‘mamma’ di ‘da Piereddu’) è di aver combinato gli spettacoli d’oggi con le vestigia di ieri, il presente con l’onnipresente. Solo in Sardegna, più che in Sicilia, più che a Roma, si respira l’eternità.

Il teatro nei siti archeologici prevede incursioni sotto un olivo selvatico, nel Parco di Sardajara a Nurri, per ascolatre Iaia Forte nella lettura delle pagine preziose di Katherine Mansfield edite da Adelphi, o scampagnate boschive, per entrare nelle bocche delle Grotte di Sadali, guidati da Crisriana Pilia e dall’arpeggio di melodie d’Irlanda o dell’antica Sardegna. La discesa è nel tempo: 5 milioni di anni fa. Percorso acrobatico di grotte-galllerie, piacevole immersione estiva in umidità e temperature da camera d’hôtel (14 gradi, naturali), trafitti e sovrastati da una foresta di stalattiti e stalagmiti.

Riemersi alla superficie del tempo, il NurArcheoFestival dispone al tramonto la sonda, gestita da Virginia Carrus, delle viscere del Nuraghe Arrubiu a Orroli, uno dei meno distrutti, che fa da sfondo alla maggior parte degli spettacoli. La sera prima, il teatro-danza di Viviana Bovino, che con la regia di Gregorio Amicuzi, interpreta una Penelope abbandonata, filando gesti e parole con i rami cui s’appende, in dialogo solitario e vegetale.

Poi, prima che all’orizzonte s’affacci il giallo notturno della mezza luna, sul fondo del Nuraghe di soltanto 3.300 anni fa, ecco lo stupendo monologo Relazione per un’Accademia, scritto da Franz Kafka soltanto 105 anni fa, interpretato da quell’attore unico che è Tommaso Ragno, nato soltanto 55 anni fa. Stalattiti e stalagmiti possono aspettare. Spettacolo da capogiro, applaudito dal figlio Domenico, 12 anni (« Da grande, farò il regista ») e da Iaia Forte, entusiasta. Il momento più trascinante – e di grande attualità, con i suoi rimandi al «perfetto uomo europeo » – del NurArcheoFestival, che ha avuto in programma anche l’ottimo Opposti flutti di Marco Baliani.

Tommaso Ragno, il suo teatro è fatto di mattoni roventi. E questo è tutto suo.
Sì, ma devo ringraziare i predecessori, a partire da Martone, cui risale la mia prima esperienza teatrale dopo l’Accademia ‘Paolo Grassi’ a Milano, con la scuola-seminario sulla tragedia greca – risponde con modestia, in una lunga sosta sulla strada, vuota d’auto, cui costringono le pecore al pascolo, mentre nei campi intorno brucano l’erba i cavalli, tutti marroni, lisci, eleganti e, in alto, i gabbiani si fanno trasportare dal vento, come vele bianche nell’aria –. È lì che ho incontrato Toni Servillo. E la mia storia teatrale è cominciata.

In che cosa è stata importante la ‘scuola’ di Martone?
Per l’idea, che l’attore via via acquisice, di una cultura di gruppo: con la coscienza che, in qualsiasi situazione si trovi, nutrirà l’esigenza d’un ruolo creativo, non di semplice esecuzione. In questo, il lavoro ai Teatri Uniti, di Martone e Servillo, è stato una esperienza fondante.

È un’idea che è riuscito a trasferire anche sul set, nel suo andirivieni sempre più frequente con il cinema?
È vero, da un po’ di tempo mi dedico molto al cinema. Ma il cinema, come il mio percorso teatrale, non è legato ai singoli titoli, ma soprattutto al tentativo di crearmi famiglie teatrali. In vari film, anche in Ti mangio il cuore, mi ritrovo a esempio con Francesco Di Leva. In ogni caso, su 367 giorni all’anno, 300 li passo in teatro. Posso considerarmi fortunato: la scena mi ha fatto crescere e, anche in questi tempi di carestia, continua a chiamarmi.

Parliamo del dopo-Covid? Che effetti ha avuto sul suo lavoro?
Nella stagione che viene riprenderò con Massimo Popolizio M il figlio de secolo, al Piccolo Teatro Strehler dal 27 settembre al 16 ottobre e all’Argentina in marzo. Dopo che ci hanno costretto a rimanere a casa per mesi, potremo riassaporare il rapporto con il pubblico di ritorno: in uno spazio teatrale vero, con uno spettacolo vero, in carne e ossa, realizzato con i mezzi del teatro e aperto a tutte le libertà di cui gode il teatro.

C’è una vena d’amarezza nelle sue parole: pessimista?
No, il pessimismo non serve a niente: è lapalissiamo. La lamentela, che ascolto ovunque in giro, mi ha scocciato. Appartiene alle cattive abitudini del nostro Paese.

Dove comunque con c’è da stare allegri.
Ma, da attore, mi conforta sempre l’intelligenza del pubblico. A Roma, se lo spettacolo è buono, la gente viene, partecipa. Se gli si lascia il tempo d’avvcinarsi, il pubblico può guardare e riflettere: e rispondere. Questo non è pessimismo.

Che reazione avrà il pubblico davanti a «Ti mangio il cuore»?
Vedremo. È liberamente tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini e Giuliano Foschini edito da Feltrinelli, costruito su fatti reali: uscirà dopo Venezia, il 22 settembre. È una gangster story ambientata nella mia terra d’origine, il Gargano. Un ritorno, oggi, delle faide tra famiglie, delle vendette sanguinarie a eredità lunga. Ma sullo sfondo, o al cuore della vicenda, c’è una love story proibita. Chissà se oggi, una buona volta, l’am

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