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Tokyo «scopre» il radicalismo islamico

Tokyo «scopre» il radicalismo islamicoTokyo «scopre» il radicalismo islamico

Giappone Dopo sei mesi di prigionia, e 200 milioni di dollari di richiesta di riscatto, due giapponesi sono stati uccisi dall’Is

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 8 giugno 2016

Crediamo che quello nella foto sia effettivamente Yasuda, ha detto il 30 maggio scorso il ministro degli Esteri giapponese, Fumio Kishida. Tokyo ha confermato l’autenticità della fotografia diffusa online che ritrae il giornalista freelance Jumpei Yasuda con una lunga barba, una tuta arancione e un cartello: per favore aiutatemi, questa è la mia ultima possibilità. Da quasi un anno Yasuda è nelle mani del gruppo terroristico di al Nusra, legato ad al Qaeda e attivo in Siria, dove il giornalista si era recato attraversando il confine con la Turchia.

Lo scorso marzo un video diffuso su Facebook mostrava Yasuda accusare il governo di fare troppo poco per la sua liberazione. Da alcuni anni il Giappone, nonostante il suo tradizionale isolazionismo, è costretto a fare i conti con il terrorismo islamico. Nel gennaio del 2013 la crisi degli ostaggi nell’impianto di estrazione di gas ad In Amenas, in Algeria, portò all’uccisione di 10 cittadini giapponesi da parte di al Qaeda.

Poco più di un anno dopo, in Siria, è stato rapito il giornalista Kenji Goto. Goto era tornato nel paese per cercare l’imprenditore Haruna Yukawa, anche lui sequestrato dai terroristi in Siria. Dopo sei mesi di prigionia, e 200 milioni di dollari di richiesta di riscatto, a gennaio i due cittadini giapponesi sono stati uccisi dallo Stato islamico – quindici giorni prima il premier Shinzo Abe, dal Cairo, aveva promesso 2,5 miliardi di dollari ai paesi che combattono il terrorismo.

Quando la crisi degli ostaggi è diventata un questione seria per il governo – e per l’opinione pubblica – giapponese, il primo ministro Shinzo Abe ha annunciato una serie di provvedimenti nel tentativo di colmare i buchi di informazioni che fino ad allora avevano reso impossibile un’analisi puntuale della minaccia. Il 4 febbraio scorso Abe ha detto di voler aumentare la presenza di militari delle Forze di autodifesa nelle ambasciate giapponesi in medio oriente. I servizi segreti militari non possono condividere informazioni d’intelligence con il personale civile, e in alcuni paesi Tokyo non era in grado di collaborare con le spie locali.

Il Giappone non aveva mai considerato una necessità quella di creare una rete d’intelligence all’estero per proteggere i propri cittadini. Ora lo vuole fare ad ogni costo. L’anno scorso il ministero degli Esteri ha chiesto al giornalista freelance Yuichi Sugimoto di consegnare il proprio passaporto. Sugimoto aveva espresso pubblicamente la sua intenzione di andare in Siria, e l’articolo 19 della legge sui passaporti permette al ministero di «revocare il documento di un cittadino nel caso in cui voglia mettere a rischio la sua vita». Nel frattempo, Tokyo ha iniziato a siglare una serie di accordi bilaterali con i paesi alleati per la condivisione di informazioni d’intelligence – ne è stato firmato uno anche con l’Italia, nel marzo scorso.

Sul fronte interno la strategia nipponica è, da sempre, quella di preservare il più possibile l’integrità della «tradizione», chiudendo le porte all’immigrazione: nel 2015 su 7.586 richiedenti asilo, il governo di Tokyo ha accettato soltanto 27 domande, sei da cittadini afghani e tre da siriani. Secondo alcuni movimenti progressisti, la politica giapponese di non accettare stranieri riguarda specialmente gli immigrati musulmani. Una fonte del ministero degli Esteri di Tokyo, che preferisce restare anonima, dice: «Se aprissimo le porte ai richiedenti asilo, il governo cadrebbe immediatamente», ma ammette che con il declino della popolazione la politica dovrà cercare di educare i cittadini a una convivenza. Più volte l’Onu ha richiamato il Giappone e ha chiesto a Tokyo di rivedere le politiche nei confronti dei musulmani, «basate sul pregiudizio che le persone di una certa ‘razza’, nazionalità o religione sono particolarmente predisposte a commettere crimini».

In un lungo dossier del settembre del 2014, l’Asia-Pacific Journal ha raccontato i motivi di una possibile violazione dei diritti umani nei confronti dei musulmani residenti in Giappone. Un paio di anni fa il Tribunale di Tokyo ha respinto le accuse di un gruppo di diciassette persone – cittadini giapponesi ma anche marocchini, tunisini e iraniani – che reputava incostituzionale il programma di sorveglianza speciale da parte della polizia. «Il caso è iniziato nell’ottobre del 2010 con i leak di un centinaio di documenti del dipartimento di polizia metropolitana di Tokyo che mostravano la sorveglianza intrusiva della comunità musulmana giapponese», scrive l’Asia-Pacific Journal, spiegando che il programma comprendeva la raccolta sistematica di dati personali di persone selezionate solo sulla base della religione e dell’etnia. In un discorso all’Assemblea generale dell’Onu nel settembre del 2015, anche Shinzo Abe ha detto: «Il Giappone vuole contribuire a cambiare le condizioni che fanno aumentare il numero di rifugiati. La causa di questa tragedia è la paura della violenza, del terrorismo, della povertà». Staccare l’assegno, ma accogliere mai.

Eppure l’unico vero caso di terrorismo islamico su suolo giapponese è avvenuto il 12 luglio 1991. Quel giorno Hitoshi Igarashi, giapponese di 44 anni, fu aggredito e ucciso davanti agli ascensori del settimo piano di un edificio dell’Università di Tsukuba, dove insegnava Letteratura persiana. Era stato lui a tradurre in giapponese i Versetti satanici di Salman Rushdie, colpito nel 1989 dalla fatwa dell’Ayatollah Khomeini. All’università di Tsukuba, ancora oggi nessuno ha voglia di parlare dell’episodio. Igarashi aveva studiato il persiano a Teheran, ed era tornato in Giappone, da convertito, subito prima della Rivoluzione del 1979. Lo scrive lo stesso Rushdie in Joseph Anton: «L’assassino non fu mai arrestato. In Inghilterra circolarono voci diverse sul suo conto.

Era un iraniano arrivato in Giappone in tempi recenti. In un’aiuola fu trovata l’impronta di un tipo di scarpa prodotto soltanto nella Cina continentale. Gli inquirenti incrociarono i nomi dei visitatori entrati in Giappone a partire da scali cinesi con quelli di noti terroristi islamici. Trovarono un riscontro, ma il nome non fu divulgato. Il Giappone non produceva carburante e importava molto del suo petrolio greggio dall’Iran. Il governo giapponese aveva addirittura provato a impedire la pubblicazione dei ‘Versi satanici’, chiedendo ai maggiori editori del paese di non stampare il romanzo, e soprattutto non voleva che l’omicidio di Igarashi complicasse i rapporti d’affari con l’Iran. Il caso fu messo a tacere. Nessuno fu incriminato. Una brava persona era morta, ma la sua morte non doveva creare imbarazzo».

La ricostruzione di Rushdie, fin troppo complottista secondo più fonti (l’assassino non fu mai trovato proprio per l’inadeguatezza delle forze dell’ordine nipponiche nel gestire casi di terrorismo islamico), funziona in un punto: il Giappone ha improvvisamente scoperto che isolarsi e staccare assegni non basta per combattere il terrorismo. Con l’approssimarsi delle Olimpiadi del 2020, per Tokyo sarà sempre più difficile.

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