Il lavoro di classificazione etnica condotto in Cina a partire dagli anni ’50 si ispirò alla procedura tassonomica impiegata nelle scienze naturali con l’obiettivo di stabilire un numero limitato di categorie etniche (minzu), presupposto dell’ordinamento multietnico nella neofondata Rpc.

Pochi anni dopo la conclusione della Rivoluzione Culturale, Fei Xiaotong scriveva che la classificazione etnica non fosse affatto da considerarsi conclusa, riferendosi con ciò sia ad alcuni dubbi sollevati da antropologi e linguisti sulla pertinenza della categoria stabilita sia alla resistenza di taluni gruppi ad accettare la classificazione loro assegnata.

Lo studioso riportava in particolare l’attenzione alle comunità stanziate in quello che chiamò «corridoio etnico», una fascia di confine naturale che segna il passaggio dall’altopiano tibetano alle pianure centrali. Qui si concentra una popolazione multilingue e multiculturale, caratterizzata da una lunga storia di interazioni e processi migratori fittamente intessuti e difficilmente districabili che avevano reso il lavoro di classificazione linguistica ed etnica particolarmente complesso.

Le comunità del corridoio etnico condividono una posizione di marginalità geografica e culturale nella sinosfera simile a quella di altre popolazioni classificate oggi come minoranze etniche nella Rpc.

Tuttavia, ad alcune di esse – Minyak, Ersu, Namuyi, Pumi, Baima, Jiarong, Xumi, Guiqiong, Zhaba – è ascritta una condizione periferica anche all’interno della tibetosfera, lo spazio transnazionale che comprende l’altopiano tibetano nella Rpc e i paesi himalayani.

Nella prospettiva di una concezione tibeto-centrica che distingueva tra centro civilizzato buddhista e periferia barbara da convertire, lingua scritta e dialetti, i tibetani dell’altopiano storicamente avevano considerato le suddette comunità parte integrante della tibetosfera, seppure ai margini geografici e culturali. Negli anni ’50, la maggior parte di esse, ad eccezione della comunità Pumi classificata come minzu distinta, non fu riconosciuta ma confluì nella categoria etnica tibetana (zang). L’inclusione – spesso stabilita sulla base della valutazione di una supposta o plausibile prossimità linguistico-culturale – in una singola macro-categoria etnica ha di fatto permesso la preservazione di una tibetosfera demografica nominale all’interno dell’ordinamento multietnico della Repubblica Popolare che è di grande valore simbolico e ideologico per i tibetani.

All’inizio degli anni ’80 il clima di distensione politica post-Rivoluzione Culturale aprì uno spiraglio per esaminare le petizioni pervenute alle autorità provinciali e nazionali da parte di alcune comunità classificate come zang che reclamavano di valutare una possibile riclassificazione etnica.

Il caso dei Baima, una comunità di circa 10mila persone che abita le regioni montuose a cavallo tra la provincia del Sichuan e del Gansu, è tra quelli che meglio illustrano l’incongruenza tra i risultati prodotti dalle nuove ricerche degli anni Ottanta e la decisione di mantenere lo status quo.

La maggioranza degli studiosi interpellati sostenne la necessità della riclassificazione. Tuttavia, questa posizione si scontrò con la forte opposizione del noto e rispettato studioso tibetano dMu dge bSam gtan, i cui scritti sono un manifesto dell’insistenza della comunità accademica tibetana nel ribadire l’appartenenza Baima al gruppo zang. L’argomentazione di dMu dge bSam gtan si focalizzò sulla decostruzione sistematica delle prove dell’unicità dei Baima addotte dagli altri studiosi, citando al contrario continuità storiche e linguistiche e caratteristiche religiose e culturali che consolidano l’appartenenza passata e presente dei Baima alla popolazione tibetana.

In particolare, la non intellegibilità della lingua Baima fu spiegata con la diffusa incomprensibilità tra dialetti tibetani; la cosmologia e le complesse pratiche rituali Baima furono interpretate come l’eredità culturale e religiosa del Bon, l’antica religione tibetana pre-buddhista. In questo modo, dMu dge bSam gtan ribadiva la tibetanità dei Baima, collocandoli simultaneamente in una gerarchia etnica interna al gruppo tibetano: ai margini geografici – lontano dal Tibet centrale – e culturali – non convertiti al Buddhismo – della tibetosfera.

La posizione di dMu dge bSam gtan esprimeva quella di molti intellettuali tibetani, preoccupati di garantire che la tibetosfera, pur non essendo un’entità geopolitica indipendente, fosse riconosciuta e sopravvivesse all’interno della Repubblica Popolare così come era percepita dai tibetani, ovvero includendo popolazioni geograficamente e storicamente marginali che erano state influenzate dalla lingua e dalla cultura tibetana. Si comprende dunque che la reazione contraria al riconoscimento dei Baima non fosse una questione meramente accademica ma rispondesse al timore che un’eventuale proliferazione di gruppi etnici riconosciuti come non zang dal governo centrale potesse ledere l’unità geografica e demografica della Tibetosfera.

L’appartenenza delle comunità Baima alla categoria zang fu dunque confermata negli anni Ottanta e non fu più messa in discussione in funzione dell’obiettivo politico della riclassificazione.

Tuttavia, a distanza di circa trent’anni, il numero delle pubblicazioni sulla comunità Baima è notevolmente aumentato. Oltre alle numerose e più note ricerche linguistiche di Sun Hongkai e Katia Chirkova, sono da evidenziare le ricerche etnografiche condotte da Lha byams, un etnologo tibetano contemporaneo autore di numerosi articoli sulle pratiche rituali Baima che ha documentato in modo preciso ed approfondito.

In uno dei suoi articoli Lha byams, pur non avendo una formazione specializzata in linguistica, si addentra in una serie di ipotesi etimologiche per dimostrare che l’ambito della linguistica comparativa possa fornire prove più affidabili e scientifiche che dimostrino la tibetanità dei Baima. La discussione si sviluppa in una cornice teorica diversa rispetto agli anni Ottanta, che riflette la trasformazione della terminologia e dei concetti nel dibattito antropologico dell’accademia cinese.

Tuttavia, nonostante le differenze nell’argomentazione e il lungo intervallo di tempo intercorso tra gli scritti di dMu dge bSam gtan e Lha byams, emerge un importante punto in comune tra i due studiosi: il senso di autoidentificazione e di percezione identitaria dei Baima è trascurato in favore della relativizzazione della differenza linguistico-culturale e della naturalizzazione dell’appartenenza dei Baima alla Tibetosfera che, nei termini della classificazione etnica, è sancita dall’inclusione nella categoria zang. L’inconfutabilità di tale inclusione emerge dalla valutazione di due parametri interconnessi, lingua e religione, che servono a dimostrare simultaneamente la tibetanità e la perifericità dei Baima all’interno della Tibetosfera.

La lingua Baima è una lingua del gruppo tibeto-birmano che non è mutualmente intellegibile per nessuna delle comunità tibetane circostanti e non ha un sistema di scrittura indipendente.

In linea con quanto già scritto da dMu dge bSam gtan, secondo alcuni studiosi tibetani contemporanei, la lingua parlata dai Baima sarebbe un dialetto tibetano alterato, a cui non andrebbe riconosciuto lo status di lingua. Inoltre, in questa stessa prospettiva, in assenza di un sistema di scrittura proprio, la scrittura tibetana impiegata esclusivamente nei manuali rituali utilizzati dalla comunità Baima costituirebbe un’ulteriore evidenza che vada considerata la lingua scritta Baima.

Ciò che è però omesso è il fatto che gli esperti rituali Baima siano in grado di leggere ma non di comprendere il significato dei testi scritti in tibetano. Inoltre, la scrittura tibetana non si è mai diffusa come mezzo di comunicazione ordinaria tra la popolazione. La religione è l’altro ambito principale in cui è proiettata un’interpretazione peculiare delle pratiche rituali Baima.

La religione Baima si fonda infatti su un apparato di riti domestici a partecipazione sia familiare sia comunitaria che riflette una cosmologia complessa di relazioni con l’ambiente naturale e comprende sacrifici animali. In tali pratiche rituali è rintracciabile una predominante influenza dalla cosmologia e dalla cultura tibetana, ma sono presenti anche elementi della cosmologia e dalla religione popolare han e di altre comunità circostanti che sono stati sintetizzati in modo unico dai Baima.

Nonostante non sia possibile ascrivere i riti Baima ad un’origine esclusivamente tibetana, questi sono assimilati da dMu dge bSam gtan e da Lha byams, nonché nel corso di conversazioni avute con altri studiosi tibetani, direttamente al Bon antico, la religione pre-buddhista del Tibet di cui si conosce ancora poco e principalmente attraverso fonti di molti secoli successivi.

Sin dall’introduzione del Buddhismo in Tibet, il Bon è stato demonizzato dalle scuole del Buddhismo tibetano come una religione barbara e sanguinaria.

Tuttavia, in una prospettiva culturale nativista emersa nell’ultimo decennio nell’ambito degli studi accademici tibetani nella Repubblica Popolare, un altro aspetto del Bon ha preso il sopravvento: il fatto che sia considerata la più antica e autoctona religione del Tibet, a differenza del più tardo ed esogeno Buddhismo. Pur se distante dalla sensibilità della maggior parte dei tibetani che oggi continua ad identificarsi con la civiltà buddhista, questa tendenza degli studi si concentra sul Bon antico, in quanto ritenuto il sostrato culturale e religioso autentico che accomuna i tibetani e racchiude l’essenza della tibetanità.

In quest’ottica, il valore della ricerca sui riti contemporanei praticati dai Baima e da altre comunità del corridoio etnico classificate nel gruppo zang risiede principalmente nell’aspettativa di poter osservare pratiche sopravvissute ai margini della Tibetosfera che si suppone esistessero in forme molto simili o identiche sull’altopiano tibetano fino all’avvento del Buddhismo.

I Baima rappresentano dunque per gli studiosi tibetani un fossile linguistico e religioso che paradossalmente condensa due identità divergenti: la sopravvivenza dell’essenza autentica delle popolazioni tibetane antiche e una declinazione contemporanea della tibetanità che appare periferica e deviante.

In sintesi, dal punto di vista tibetano fare ricerca sulla comunità Baima significa da una parte applicare un approccio filologico-archeologico all’etnografia che permetta di riconnettersi con il passato pre-buddhista e dall’altra ignorare i discorsi dell’identità Baima contemporanea.