Internazionale

La sindrome dell’Impero di mezzo

La sindrome dell’Impero di mezzoMatteo Ricci, paesaggio della periferia di Pechino, (inizi xviii secolo)

Mille e una Cina Samuel Wells Williams, dopo mezzo secolo di vita trascorsa in Cina, scrisse nel 1838 un libro di incredibile successo e duratura fama, «The Middle Kingdom»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 27 maggio 2020

«II centro è niente , le periferie sono tutto» ha dichiarato Yu Yinshih, uno dei massimi storici cinesi.

Per scherzo, per pura provocazione? Così ha subito commentato un altro studioso famoso, Tu Weiming, autore peraltro di un saggio dal titolo Cultural China: The Periphery as the Center che potrebbe indicare un filone comune di pensiero tra accademici che, è giusto sottolinearlo, benché letti e apprezzati nella Repubblica Popolare cinese non ne fanno parte, sono cittadini americani. Ma nonostante questo, che simili considerazioni storiche e culturali vengano prese in esame da due cinesi per nascita che dovrebbero per lo meno esser stati sfiorati dalla sindrome dell’Impero di Mezzo, fa un certo effetto.

A detta dei detrattori di questa vanagloriosa definizione, ne sarebbero afflitti tutti coloro che in Cina sono nati, recentemente contagiati da una forma di nazionalismo assai più virulenta.

Ma davvero i cinesi, nel loro immaginario, hanno sempre situato la Cina al centro del mondo? Diciamo la verità, la sindrome è stata indotta nell’arena internazionale da un americano di buone intenzioni, Samuel Wells Williams , il quale dopo mezzo secolo di vita trascorsa in Cina come missionario e poi come segretario della missione diplomatica a Pechino degli stati uniti d‘America, scrisse nel 1838 un libro di incredibile successo e duratura fama, The Middle Kingdom sulla geografia, l’arte, la storia, gli usi e costumi dell’Impero cinese.

Wlliams sapeva che i nomi usati dai nativi per indicare il loro paese erano tanti e alla fine scelse Zhongguo che nessuno usava in senso geografico preciso, era un termine antico, plurivalente ,e lui tradusse alla lettera i due caratteri Zhong centro, mezzo, e Guo paese, stato, che divennero così per la prima volta, ma in inglese, una località ben precisata pur se esotica, e che poteva trovare un riferimento tra i regni e gli stati del mondo anche se non era al centro del mondo. Pensare che i due caratteri accoppiati avevano una lunga storia risalente addirittura a prima della dinastia Qin, e vari significati che non staremo a ricordare, forse il più noto è quello di Stati centrali delle pianure, ma nemmeno Qin il Primo Imperatore vi fece ricorso nella magniloquente descrizione cosmologica ed etnocentrica delle sue conquiste.

Il termine Zhongguo poteva vantare un’esistenza millenaria, nei secoli era stato talvolta usato in modo sommesso, talvolta con vanteria, talvolta ancora aveva assunto il nobile significato di idea morale che trascende il tempo e lo spazio. Tante interpretazioni forse derivano dall’ambiguità non tanto del secondo componente Guo, stato, paese, ma da Zhong, centro, che secondo la lettura che ne da la sinologa Anne Cheng non designa un punto fermo geografico ma anche, forse soprattutto, una tensione dinamica e spaziale.

In questa chiave andrebbe interpretata la spiazzante affermazione «il centro è niente, le periferie sono tutto» applicabile sia alla storia del passato, durante la quale molti centri politici considerati periferici (ma rispetto a chi? A cosa?), avrebbero contribuito alla formazione di quella che chiamiamo civiltà cinese, ora alternandosi ora agendo simultaneamente? E nella storia più recente, si capirebbe meglio il senso di strategie apparentemente decentralizzate, come la istituzione delle Zone Economiche Speciali, periferiche rispetto al centro politico, sovvenzionate sulle prime con capitali ancora più periferici, quelli forniti dalle comunità asiatiche dei hua chao, i cinesi d’oltremare, ma che alla fine si sono rivelate centrali al processo di crescita economica cinese.

Vien fatto quasi di pensare che il rapporto centro-periferia in Cina, contrariamente alla credenza in un prevalenza teoricamente inattaccabile del centro, sia stato spesso giocato con una souplesse intrigante, ricorrendo a alternanze inusuali, come accadde per esempio quando a causa del dissidio, così si chiamava, tra Unione sovietica e Cina, la Cina venne a trovarsi alla periferia estrema del movimento comunista internazionale ma ribaltò presto la situazione ricostituendo, con la Rivoluzione culturale, un polo alternativo di attrattiva che la portò alla ribalta internazionale mettendo l’Unione sovietica con le spalle al muro.

Si combattè allora, nel 1969, una breve guerra tra russi e cinesi, per il possesso di un’isoletta del fiume Ussuri, affluente del fiume Amur, in cinese Heilongjiang che segna il confine tra i due stati. Il fatto voglio ricordarlo non in riferimento alle periferie ma perché prima che la Cina si chiamasse Cina, adottasse cioè questa denominazione riconosciuta internazionalmente dal consesso degli stati, il nome viene per la prima volta menzionato nel Trattato di Nercinsk del 1689 tra l’impero Qing mancese e l’impero russo.

Si noti che era la prima volta che la Cina trattava da pari a pari con un impero suo confinante, quello zarista, e che i testi del trattato stipulato vennero redatti, firmati e contro firmati in latino, russo e mancese, la lingua ufficiale della dinastia regnante, appunto mancese. Il latino, in due versioni redatte da padri gesuiti stabiliti alla corte di Pechino, è la lingua di garanzia per le parti in causa e la Cina è chiamata Imperium sericum e la Russia Ruthenicun, ma non ho mai avuto modo di vedere la successiva traduzione cinese e non leggendo il mancese non so se la Cina si chiamasse dubai gurum o jungg’o, chi lo sa: comunque in russo è Kitai e comunque il paese era l’impero dei Qing, i mancesi, e quindi si chiamava Da Qing , come è attestato in altre scritture, e come prima era stato definito con i nomi di altre dinastie importanti, la Han, la Tang.

Tuttavia il fatto che sia pure in altre lingue la denominazione di Cina, apparisse, rivela una crisi identitaria dell’impero Qing la cui sinizzazione era ormai evidente e si palesava anche nelle incertezze della lingua ufficiale, appunto il mancese.

Comunque, dopo il trattato di Nercinsk, il nome Zhongguo non compare più nei vari trattati, tutti ineguali, che i Qing furono costretti a negoziare con il mondo esterno e che annunciavano il preludio della fine dell’impero o, per lo meno, la caduta della dinastia che gli dava il nome.

«Mi sembra vergognoso che il nostro paese non abbia un proprio nome nazionale» scrisse Liang Qichao che passò in rassegna tutti quelli disponibili e li scartò tutti, per primi quelli dinastici legati a periodi specifici della storia, scartò anche i nomi usati dagli stranieri per orgoglio nazionale e alla fine optò come già altri studiosi avevano fatto, per Zhongguo, ma poi vi rinunciò per tema delle critiche degli occidentali e anche perché, come sostenevano altri riformatori chiamare paese del centro un paese che non era geograficamente al centro essendo la terra una palla, era una scorrettezza cartografica.

Però culturalmente non si proponevano altre veloci e facili soluzioni ma andava tenuto conto delle critiche degli occidentali, quindi vi fu chi propose di scartare qualsiasi nome composto con il carattere Zhong.

Stavano così confusamente le cose quando la dinastia crollò e fu impellente trovare un nome per un paese nuovo e antico. Cina si disse prima Zhonghua minguo, Repubblica cinese e poi, nel 1949, Zhonghua renmin gongheguo, repubblica popolare cinese. Il carattere Hua, fiore, cultura, raffinatezza, sostituisce il Guo ma non lo esclude. È lecito chiedersi se la sindrome scatenata da Williiams persista, è certo però che le critiche occidentali al Zhong non sono più tenute in nessuna considerazione.

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