Tinariwen, folk ancestrale elettrificato
Dal vivo Il gruppo maliano a Reggio Emilia grazie alla collaborazione tra i festival Barezzi e Aperto
Dal vivo Il gruppo maliano a Reggio Emilia grazie alla collaborazione tra i festival Barezzi e Aperto
Si rinnova per il secondo anno la collaborazione tra i due festival autunnali che animano Parma e Reggio: Barezzi, orientato sulle musiche pop, e Aperto, con un focus sui suoni di ricerca, e arrivano al teatro Valli i maliani Tinariwen. Proveniente da Tessalit, nella regione del Kidal in Mali, la band è alfiera del tishoumaren, un genere che mischia in sé elementi world, blues, rock e della tradizione tuareg. Il settetto comprende sei voci, quattro chitarre, basso e percussioni: le strutture delle canzoni sono circolari e ripetitive; si alternano andature incalzanti a movenze più dinoccolate, traversando deserti blues dove le corde tracciano rotte nella polvere. Il basso imbastisce figure minimali, le percussioni scandiscono quattro quarti ipnotici, le voci cantano di partenze, esilio, lontananza e fratellanza.
Nel 2003 Martin Scorsese diresse From Mali To Mississippi (Feel Like Going Home), un documentario che indagava il profondo legame tra il blues delle radici e la musica africana, con Corey Harris come Cicerone del viaggio che a un certo punto andava a Niafunké a trovare Alì Farka Touré, improvvisandoci insieme come in una jam blues. Tinariwen rientrano in questa tradizione, dove il folk ancestrale del continente nero incontra le musiche della modernità che sono sue figlie, si elettrifica e assume un’altra veste. Nati negli accampamenti dei profughi tuareg tra gli anni settante e ottanta, cantano in tamashek (Tinariwen significa deserti) e attingono a tradizioni africane come il chaabi marocchino e il raï algerino, impastato con il pop e il rock occidentale a creare una pietanza saporita che ha incontrato il gusto di palati come Santana, che li ha invitati al suo fianco al Montreux Jazz Festival o i Rolling Stones, per i quali hanno aperto.
I sette nei loro pezzi apparecchiano una tavola imbandita con sapidi, semplici cibi: un ritmo rotondo e incalzante, una chitarra leader che non si lancia in assoli ma dialoga con il canto come un muezzin all’alba dal minareto, il basso e le percussioni a sorreggere tutta l’architettura, le altre chitarre ad aggiungere altra polvere elettrica. Il risultato è una musica corale, limpida sebbene attraversata da uno scirocco costante che solleva sabbia e memorie, elegiaca eppure densa di speranza e di un intimo senso di lotta. La scrittura non è particolarmente articolata, l’enfasi è sul suono, sul mood e su un dettato che trascina il folto pubblico presente dalla prima all’ultima nota, sino al finale dove tutti si alzano in piedi.
La ventiquattresima edizione del Barezzi prosegue fino a metà novembre, sconfinando anche a Bologna e Piacenza e con, tra gli altri, Lankum, dEUS e Andrew Bird. La sedicesima di Aperto, laconicamente e significativamente intitolata “Articolo 11”, fino a fine novembre propone a Reggio Emilia concerti, installazioni, spettacoli di danza con incursioni anche nel teatro: si parte sabato 21 con la prima di Flamenco Criollo, un mix di ritmi tra Spagna, Africa e Cuba a cura dell’Aruán Ortiz Ensemble.
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