Un elefante al Nairobi National Park
Un elefante al Nairobi National Park
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L’ecologia che l’Occidente vorrebbe spiegare ai masai

Africa Mara Naboisho è stata creata nel 2010, quando alcuni masai decisero di riservare alla conservazione parte dei campi: duecento chilometri quadrati in piena Rift Valley. L'amministrazione qui non spetta allo Stato ma ai membri della comunità, che deliberano in autonomia gli investimenti economici; Pardamat Conservation Area è un altro esempio virtuoso: ma le buone intenzioni non sempre vengono declinate nel modo corretto
Pubblicato 6 giorni faEdizione del 21 settembre 2024

Pare vincolata all’obbligo di poeticità l’idea del continente che pretendiamo di assumere per vera, spremendo le regole imposte dal crudele gioco della nostra Africa. «Nel titolo, usate sempre le parole «Africa», «nero», «safari». Nel sottotitolo, inserite termini come «Zanzibar», «masai», «zulu», «Zambesi», «Congo», «Nilo», «grande», «cielo», «ombra», «tamburi», «sole» o «antico passato». Altre parole utili sono «guerriglia», «senza tempo», «primordiale» e «tribale». Lo consiglia il sarcasmo di Binyavanga Wainaina in How to write about Africa, un articolo pubblicato nel 2005 sulla rivista britannica Granta e così tradotto da Michela Volante.

Il colonialismo, licenziato dalla letteratura di viaggio, rientra dalla finestra di social centrati sull’instagrammabilità di paesaggi che vorremmo incontaminati; di volti che desidereremmo in armonia, nonostante la storia e le storie, con la natura. E però perfino la ferocia può vestirsi di ambientalismo. La rivolta contro la legge finanziaria deflagrata in Kenya il 25 giugno è partita anche dalla protesta contro una tassa definita ecologica, che metteva pannolini e assorbenti nel calderone dei beni usa e getta. La passione per i grandi mammiferi è scaduta nel sovraffollamento turistico. Gli ogiek sono espulsi dalla loro foresta per una lettura viziosa dell’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico.

Eppure le ambizioni nascevano diverse. «L’intero mondo riconosce che, oltre all’innalzamento delle temperature, dobbiamo affrontare le crisi legate alla perdita della biodiversità», assicura Stefano di Gessa di International Land Coalition, una rete che da Roma lavora con organizzazioni locali di Africa, Asia e America latina affinché vengano riconosciuti i diritti alla terra di popolazioni indigene, pastori, nomadi, piccoli agricoltori.

A Nairobi, il 22 maggio 1992, fu adottata la Convenzione sulla diversità biologica, formalizzata il mese successivo a Rio de Janeiro insieme alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e alla Convenzione contro la desertificazione.

«Nel dicembre 2022, nel corso della XV Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità, si è poi stabilito un obiettivo ambizioso. Per evitare il collasso dei nostri ecosistemi, entro il 2030 dobbiamo garantire tutela al 30 % delle aree terrestri e marine mondiali», continua Di Gessa. «Per raggiungere tale obiettivo, i parchi nazionali non bastano: aumentarne l’estensione sarà indispensabile, ma non sufficiente. Si deve lavorare con le comunità locali e riconoscere il loro ruolo nella difesa e gestione della biodiversità».
Per una ragione, soprattutto: le terre sono abitate. E il Kenya offre valide alternative alla prassi centralizzata del national park, così come determinata dall’istituzione nel 1872 dello Yellowstone, che nella savana ha ispirato Tsavo, Amboseli, Masai Mara, Hell’s Gate.

Venti leoni

La Mara Naboisho Conservancy funziona però diversamente. È stata creata nel 2010, quando alcuni masai decisero di riservare alla conservazione parte dei campi: duecento chilometri quadrati in piena Rift Valley. L’amministrazione qui non spetta allo Stato ma ai membri della comunità, che deliberano in autonomia gli investimenti economici. L’accesso ai turisti è a numero limitato e il prezzo per loro sostenibile. È contenuto il numero degli alloggi di lusso che sottraggono acqua dal sottosuolo, per cui dal vicino Masai Mara hanno preso a trasferirsi animali che bevono meglio e non rischiano di essere perennemente stressati dalle jeep: oltre a iene, ghepardi, elefanti e giraffe, ci sono ormai oltre venti leoni. Le cinquecento famiglie masai associate percepiscono dall’investimento ogni anno qualche migliaio di dollari, che trasformano in accesso all’educazione per i figli, acqua pulita, una casa più solida.

Un altro esempio è offerto dalla contigua Pardamat Conservation Area. «I duecentocinquanta chilometri quadrati di questa conservancy, fondata nel 2016, appartengono ai masai», chiarisce il direttore Jackson Taki. I proprietari provengono da ottocentocinquanta famiglie e sono pertanto circa ottomila le persone che, nell’ultimo decennio, hanno visto cambiare radicalmente l’ambiente in cui vivono: nel 2013 ancora morivano trenta elefanti per bracconaggio, nel 2024 ci si riunisce periodicamente in un’assemblea pubblica per pianificare insieme. «Tutti i proprietari sono rimasti qui», chiarisce Taki. «Negli anni ’90, quando nei dintorni furono istituite sei aree di conservazione, questa rimase nella zona l’unica terra desinata a usi privati per insediamenti e pastorizia: del resto c’è l’acqua, anche se per lo più salata, e l’incidenza della malaria è piuttosto bassa nonostante la presenza di tanti animali. I masai accorsero quindi in massa e la pressione sul territorio aumentò, portandosi dietro una spiacevole competizione. Proprio per rimediare a questo peccato originale abbiamo inseguito un modello di conservazione alternativo, basato sulla coesistenza».

Pardamat è infatti l’unica aerea nella regione del Masai Mara in cui lo stesso colpo d’occhio può abbracciare umani, vacche e capre, elefanti e giraffe. «Siamo partiti da una mappatura dei corridoi utilizzati per le migrazioni dai grandi mammiferi, iniziando dagli elefanti per via di quella memoria che li rende abitudinari», racconta Taki. «Abbiamo quindi messo a confronto gli anziani dei villaggi con gli scienziati per identificare spazi che dovevano essere assolutamente lasciati liberi, buttando giù trecentoquaranta chilometri di recinzioni che ostruivano i punti di passaggio fondamentali. Sciolta la conflittualità tra uomo e natura, restava il problema delle predazioni. Di giorno ventisei ranger pattugliano i campi per informare i pastori dei movimenti dei carnivori. Di notte invece non ci resta altro che puntare su una prevenzione più efficiente e allo stesso tempo meno invasiva, per cui premiamo i pastori che dal tramonto all’alba mettono al sicuro gli animali in recinzioni che tuttavia corrispondano al massimo al 10 % della proprietà di competenza. Se non dovesse bastare, un fondo risarcirà almeno in parte chi subisse perdite da iene, leopardi, leoni. Il piano di zonizzazione condiviso ha inoltre riservato dei settori alle scuole: uno scuolabus per i figli, oltre a un indennizzo, è garantito per chi rimuova un recinto cedendo così il passo agli animali selvatici».

Masai

Se il vicino parco del Masai Mara richiede al visitatore un biglietto di duecento dollari e conta su un alto afflusso perché si preoccupa principalmente di assicurare introiti allo Stato, a Pardamat predomina invece l’interesse identitario. I soldi ricavati dal turismo, attivo qui soltanto da due anni, servono per formare esperti locali e interrompere la duratura sudditanza culturale nei confronti di Nairobi, mentre la popolazione locale si riappropria finalmente della possibilità di potenziare una vivace cultura: i masai restano pastori qualora lo vogliano, continuano a usare statuti comunitari, se lo desiderano possono provare a cambiare il futuro. Grazie all’istruzione.

«Quest’anno abbiamo ricevuto centottantacinque domande per quaranta posti», dice la responsabile della contabilità per The Wildlife Tourism College: una scuola biennale di formazione aperta nel 2023. Mentre ci mostra la biblioteca dove lei stessa ha studiato, un museo naturalistico e il generatore a pannelli solari con cui si mantiene l’intero campus, studentesse e studenti sostengono un esame di accesso scritto e orale. È il 15 di agosto, piove e l’aria è fresca sull’altopiano; i loro volti appaiono concentrati e preoccupati: se non dovessero passare, non sarà facile procurarsi una seconda occasione. «Coloro i quali saranno ammessi riceveranno però una formazione gratuita, perché li aiuteremo a trovare uno sponsor. Dormiranno in cinque tende da otto posti ciascuna. Impareranno a cucinare, accogliere i turisti e accompagnarli nella savana. La proteggeranno, la savana».

Se la voce dei masai è ferma e fa rumore, sono inchiodati al mutismo i vicini ogiek che vivono nella foresta di Mau: tremila chilometri quadrati dove hanno origine alcuni dei corsi d’acqua più importanti dell’Africa dell’Est, tra cui lo stesso Mara e fiumi vitali per i laghi Vittoria e Nakuru.

Ce lo spiega Daniel Kobei, fondatore e direttore dell’Ogiek Peoples’ Development Program, che ci accoglie presso Narok sul limitare della foresta, in un villaggio di circa cinquecento persone a quasi duemila metri di altitudine.

«La nostra è una comunità di cacciatori-raccoglitori. Durante la pandemia abbiamo riscoperto la medicina tradizionale, che ora interessa a molti giovani, e sappiamo usare con perizia la tecnologia: quest’anno però abbiamo subito un ingente furto di strumenti informatici nella sede di Nakuru. Siamo cinquantaduemila, secondo il censimento del 2019, ma non godiamo di alcun riconoscimento formale in relazione alla terra che abitiamo. Le api sono tra le principali fonti di reddito: raccogliamo miele da alveari che facciamo crescere in tronchi vuoti collocati sui rami alti degli alberi».

«Rappresentiamo tutti gli ogiek», specifica John Samorai, che si occupa di tessere i contatti anche con quelli più lontani. «Indossavamo pelli di animali selvatici, ora ce le procuriamo da specie più piccole che non rischiano l’estinzione: replichiamo tuttavia le antiche tramature e così riusciamo a mantenere le tradizioni. Voglio dire che non siamo statici: sappiamo cambiare il nostro rapporto con il creato. Abbiamo una scuola, la sfida è farla frequentare per educare una prima generazione con un percorso di studi». Difficile, quando si sopravvive in perenne contesa con un governo che sostiene la foresta sia sua.

Mille anni

«Ci accusano di danneggiare la biodiversità, ma noi ne siamo in realtà i custodi: tutto quello che vedi è arrivato intatto grazie a noi», risponde Kobei. «Gli antropologi confermano che siamo qui da mille anni. I conflitti interni sono risolti dalle decisioni del consiglio degli anziani. E il governo accetta. Quando invece si tratta di conflitti tra noi e il governo, il governo nemmeno ci ascolta».

Lo Stato sostiene che non sempre un ogiek è un ogiek – azzeccando garbugli su definizioni etniche di matrice occidentale filtrate da una visione pirandelliana della persona – e che nella foresta si faccia dell’agricoltura estensiva. Poi manda le ruspe, o il fuoco. Così l’Ogiek Peoples’Development Program deve occuparsi principalmente di cause legali: nel 2017, dopo otto anni, ha ottenuto che la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli imponesse al governo di consultarli per ogni decisione presa nei territori in cui vivono. Eppure continuano a essere sfollati, a infoltire le schiere dei poveri urbani.

Non per accidente quasi la totalità delle foreste appartiene allo Stato, che ovunque si premura di negare le rivendicazioni delle popolazioni indigene. Chiamano denaro: c’è la legna, ci sono i minerali. Inoltre, a spaventare, basta nel caso degli ogiek il modello di gestione proposto, perché alternativo al sistema binario incardinato sullo Stato e sulla proprietà privata: è quello comunitario, che in Italia resiste solo con gli usi civici.

Si fa largo infine una nuova frontiera, che si incista sull’attuazione pelosa di un articolo siglato a Parigi nel 2015, in cui gli Stati si impegnavano a incentivare i mercati di carbonio. Se da un lato si inquina, dall’altro si deve compensare con un’area vergine che mantenga il carbonio a terra, evitandone l’immissione nell’atmosfera. Ogni tonnellata di carbonio non prodotto è convertita in carbon credit: un valore che viene certificato per essere venduto a una società compratrice, che spesso inquina, senza che sia chiaro chi siano i titolari del credito e dell’area verde. Per ottenere questa certificazione monetizzabile, lo Stato keniano promette che la foresta rimanga intatta, trincerandosi in un violento programma definito da Amnesty International di «conservazione fortezza»: espellere gli ogiek dalle foresta di Mau, per recintarla integralmente. Un processo opposto a quello inseguito con successo dalla Pardamat Conservation Area, analogo a quello realizzato nello Yellowstone quando ne furono allontanati gli scioscioni residenti.

«Dopo gli attivisti vip e i volontari, in Africa le persone più importanti sono quelle che si battono per la tutela dell’ambiente. Non offendetele», ammonisce Wainaina. «Avete bisogno che v’invitino nelle loro riserve da diecimila metri quadrati, perché è l’unico modo a vostra disposizione per incontrare e intervistare gli attivisti vip». Quelli che, nel tempo libero, inanellano post a tema mal d’Africa sui social di Meta o fanno capolino nei documentari diffusi da Netflix: le due principali società che nel Kenya settentrionale stanno investendo in crediti di carbonio, privando l’Africa anche della natura secondo modalità ben descritte dall’inchiesta Blood Carbon, pubblicata nel 2023 dal ricercatore Simon Counsell e da Survival International.

Il Northern Kenya Grassland Carbon Project coinvolge tredici conservancies dove vivono centomila abitanti, tra cui indigeni samburu, masai, borana e rendille. Pastori con uno stile di vita inseparabile dalle esigenze di bovini, cammelli, pecore e capre, il cui benessere dipende dalle piogge e quindi da lunghissime migrazioni organizzate dai consigli degli anziani sulla base di regole, indennità e sanzioni consolidate.
Consuetudini – racconta l’inchiesta – che un atto normativo ha brutalmente cancellato per consentire agli algoritmi di certificare ventimila chilometri quadrati, che tra il 2013 e il 2016 hanno generato oltre tre milioni di crediti di carbonio (quantificabili in una cifra tra i 21 e i 45 milioni di dollari), di cui centottantamila venduti a Netflix e novantamila a Meta. È morta così la cultura secolare dei legittimi abitanti di terre finora incontaminate. Nessuna prova dimostra che le condizioni ambientali ne beneficeranno. Una sola la certezza: un sistema collettivo è stato sostituito da uno centralizzato in nome di un concetto di conservazione calato dall’alto per lavare nel verde le mani sporche del neocolonialismo.

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