Tijuana, i naufraghi dell’Impero
Immigrazione Sulla martoriata frontiera tra i mondi dello sviluppo e dello sfruttamento. I corpi umani qui sono sempre stati in balia delle manovre del capitale, dislocati come forza lavoro in base ai programmi di produzione e le esigenze di mercato. L’economia del sudovest degli Stati uniti si regge sul lavoro degli immigrati ispanici
Immigrazione Sulla martoriata frontiera tra i mondi dello sviluppo e dello sfruttamento. I corpi umani qui sono sempre stati in balia delle manovre del capitale, dislocati come forza lavoro in base ai programmi di produzione e le esigenze di mercato. L’economia del sudovest degli Stati uniti si regge sul lavoro degli immigrati ispanici
L‘impari battaglia di Tijuana fra i diseredati della caravana e i difensori del confine fortificato della prima superpotenza mondiale ha prodotto l’ultima immagine iconica della crisi migratoria. La madre coraggio in fuga dalle nuvole del gas lacrimogeno sparato dagli agenti di frontiera ha offerto la rappresentazione quasi pittorica di un’immagine che gli automobilisti in California conoscono bene.
I cartelli stradali che sulle autostrade avvertono della presenza di clandestini raffigurano una famiglia in procinto di pericoloso attraversamento della carreggiata, alla stregua di animali selvatici. La paradossale segnaletica rappresenta i profughi come fastidioso impedimento alla viabilità.
La foto della madre che tenta di trarre in salvo le figlie dall’attacco chimico delle falangi dell’impero sulla cui soglia sono naufragate, è progressione naturale di quella normalizzazione, emblema di un epoca di violenza metabolizzata nel profondo.
Il fotogramma si va ad aggiungere ad altri, come quello del bambino affogato sulle spiaggia di turca Bodrum, prodotte dalla guerra transazionale contro i poveri e i deboli, elevati dal nazional populismo globale a nemici della patria e diventati capro espiatorio e ideale strumento per alimentare odio, risentimento e paranoia.
Ora la prima linea di questo conflitto si estende al confine fra Messico e USA. Naturalmente anche gli eventi degli ultimi giorni rimbalzano sugli schermi di media e social nella consueta strumentalizzazione antistorica.
La narrazione trumpista esige un mondo semplificato da dare in pasto alla tifoseria inferocita: le orde barbariche che premono alle mura, respinte dalle truppe mobilitate per difendere Blut und Buden. Lo faranno, tuona il commander-in-chief per il visibilio dei fedeli, a costo di “sigillare i confini”.
È lui per ora il vincitore di questa rappresentazione pilotata che ha riprodotto nel nuovo mondo uno scenario ben noto sulle rotte del Caucaso, del Mediterraneo e delle guerre mediorientali.
La versione di Trump comprende il diabolico comma 22: verranno tollerati unicamente ingressi previa lecita richiesta di asilo, con la simultanea direttiva per cui queste – in barba ad ogni ordinamento internazionale – non vengono accolte.
Ai profughi non è infatti consentito avvicinarsi all’ufficio preposto e in ogni caso, fanno sapere dal dipartimento di Homeland Security, non ci sarebbe il personale sufficiente.
Per i profughi è un efferato limbo kafkiano e più si accalcano i nuovi arrivi più sale la pressione sul governo entrante di Andrés Manuel Lopez Obrador, secondo il preciso disegno che mira ad imporgli un accordo modellato sull’appalto UE alla Turchia per gestire i rifugiati o del sussidio italiano ai campi di tortura libici.
Per questo Trump tiene ostaggio il flusso di confine al varco più trafficato del mondo, linfa vitale per l’economia frontaliera del Messico.
È solo l’ultima variazione sui soprusi che hanno sempre attraversato questo confine sanguinante. Dall’invasione del 1847 costata al Messico metà del proprio territorio, alla rapace egemonia economica degli ultimi due secoli….Sul paese del sud è sempre gravata la perenne minaccia dello scomodo impero settentrionale e tutta la sua storia può essere letta nella chiave di come farvi fronte.
“Pobre México…” si dice ancora qui, “così lontano da dio cosi vicino agli Stati Uniti.”
Sulla “linea” sono transitate generazioni di persone importate come forza lavoro e deportate a seconda dell’utilità politica. Milioni di braccia sono passate ad uso dell’agribusiness industriale del “paniere californiano”.
Due milioni furono caricati su treni e deportati negli anni 30 della grande depressione. “Non abbiamo attraversato il confine,” rivendicano giustamente su ambo i lati della linea gli ispanici nativi di questa terra meticcia: “Il confine ha attraversato noi”.
Ma la realtà è che i corpi umani qui sono sempre stati in balia delle manovre del capitale, dislocati come forza lavoro in base ai programmi di produzione e le esigenze di mercato.
L’economia del sudovest degli Stati uniti si regge sul lavoro degli immigrati ispanici. 12 milioni sono senza permesso, centinaia di migliaia frontalieri.
In alternativa all’import di mano d’opera in nero c’è lo sfruttamento in loco, come avviene delle fabbriche maquiladoras che riforniscono i mercati Usa e che per costi competono con la Cina.
La delocalizzazione di recente è stata adottata anche dall’agribusiness. Oggi zone di agricoltura intensiva come il Valle de San Quintin riforniscono le corporation agricole americane come la Driscoll’s di prodotti a basso costo: è più vantaggioso ormai importare la frutta piuttosto che le persone che la raccolgono sui campi americani.
In questo modo rimangono oltreconfine anche i problemi – e le rivendicazioni – che le persone inevitabilmente si portano appresso.
Su questa martoriata frontiera vengono a contatto diretto i mondi dello sviluppo e dello sfruttamento, il terzo mondo e la spropositata ricchezza di San Diego County.
Oggi che il potere dei mercati si è sposato con quello arcigno di un regime che sottoscrive apertamente la politica eugenetica, i migranti sono diventate comparse in un gioco che alimentata la crisi col proposito specifico di fomentare la tensione ed il risentimento di cui si nutre la nuova barbarie.
Sulla piaga del confine fra padroni e diseredati Trump riversa veleno e lacrimogeno e manda in scena un disastro umano sullo sfondo di un apocalisse ecologica.
In questa rappresentazione, la signora nella foto, le sue figlie e i 10.000 componenti delle carovane accampati nelle tendopoli sull’uscio della terra promessa (come a Idomeni, come a Calais) sono semplici figuranti, comparse nell’ultimo teatro della crudeltà.
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