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Thornburg, indagine tra i presagi di una catastrofe, alle soglie del Vietnam

Thornburg, indagine tra i presagi  di una catastrofe, alle soglie del VietnamRichard Diebenkorn, «Man by a Window», 1956

Noir statunitense Alla ricerca della verità sulla morte del figlio, spacciata per suicidio, un allevatore si confronta con le false premesse che hanno alimentato il sogno hippy: «Morire in California», ritradotto da Sur

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 23 ottobre 2022

Tutti gli stilemi del noir classico convergono nella trama di Morire in California, terzo romanzo di Newton Thornburg, pubblicato negli Stati Uniti nel 1973, tradotto in Italia per la prima volta nel 1975 e ora riproposto da Sur nella nuova, ottima versione di Tommaso Pincio (pp. 400, € 19,00). Il protagonista, David Hook, lascia la fattoria dell’Illinois dove vive e alleva bovini per raggiungere la California e indagare sulla morte del figlio maggiore Chris, precipitato da una scogliera nei pressi di Santa Barbara. Un episodio che, sulla base delle testimonianze di due donne, Dorothy e Liz, nella cui villa Chris si era intrattenuto nelle ore precedenti la morte, è stato archiviato come suicidio, ma che ben presto acquista contorni meno chiari, e coinvolge una serie di personaggi molto in vista a Santa Barbara: a cominciare da Jack Douglas, ex giornalista che ha sposato una carriera politica nel Partito Democratico e si dichiara un progressista illuminato, erede ideale, anche nell’aspetto, nella ricchezza e nella disinvolta vita sociale, dei fratelli Kennedy.

Del noir, dunque, Morire in California ha quasi tutti gli ingredienti, e in alcuni casi anche i cliché: il personaggio di Hook, con la sua inflessibile ricerca della verità, la sua durezza, la sua visione apparentemente manichea dell’esistenza, ricorda da vicino i detective «storici» del romanzo hardboiled, dal Marlowe di Chandler al Mike Hammer di Spillane; Liz Madera è una dark lady che ha i suoi precedenti diretti nelle co-protagoniste di capisaldi del genere come Il mistero del falco, Il Grande sonno ma anche Il postino suona sempre due volte e La fiamma del peccato, e Jack Douglas è un villain di grande fascino. Del resto, che Thornburg, insieme a un piccolo nucleo di autori emersi sulla scena letteraria tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, come James Crumley e James Lee Burke, abbia favorito il ritorno di fiamma di un genere letterario che, per un decennio, sembrava aver perso la propria centralità, e che si è invece rivelato perfetto per descrivere un nuovo contesto caratterizzato dall’irrequietudine sociale e dallo scontro generazionale, è fatto noto e acquisito.

C’era una volta la west coast
Riletto oggi, a distanza di quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione – ed effetto analogo si produrrebbe con Cutter and Bone, l’altro capolavoro di Thornburg, uscito in America tre anni dopo e oggetto di una bella trasposizione per il cinema – Morire in California acquista quasi il sapore di un romanzo storico (e Tommaso Pincio, come gli è già capitato di fare in passato per altri titoli «canonici» della letteratura americana, sottolinea questo aspetto attraverso la scelta di termini volutamente anacronistici, come il dispregiativo «giovinastri» utilizzato per descrivere tre giovani hippy su una spiaggia). Del resto, anche se non viene mai precisato in quale anno si svolga esattamente la vicenda, i riferimenti cronologici non mancano: la California nella quale atterra Hook ha già attraversato gli spartiacque rappresentati dagli omicidi di Bel Air commessi dalla setta di Charles Manson e dal catastrofico concerto dei Rolling Stones ad Altamont: episodi che hanno segnato la fine del sogno hippy e pacifista, o forse la sua trasformazione in incubo.

Thornburg racconta il crollo del sogno – o meglio, le premesse false sulle quali si è sempre fondato – in pagine dense di amarezza e di feroce pessimismo. Questo, a titolo d’esempio, il paesaggio insieme reale e metaforico che si apre quando Hook si ferma in un punto panoramico di una strada costiera: «Sulla destra, su un promontorio che si allungava nel Pacifico, un grappolo di alti edifici consentiva di individuare il campus di Isla Vista, mentre alla sua sinistra, lungo la costa, una mezza dozzina di piattaforme petrolifere sembravano minuscoli transistor collocati nella distesa del mare su cui si specchiava un sole accecante. Si trovava così proprio fra le Scilla e Cariddi della nuova crisi americana – da un lato la compatta rocca dei contestatori, una generazione in violenta rivolta contro tutto ciò che era simboleggiato dal gorgo che si era formato dall’altro lato tre anni prima, la melma nera scaturita dal mare come il sangue di un carcinoma del retto, un sistema malato allo stadio terminale».

La forza di questo romanzo, e il dilemma che muove Hook, sta solo in parte nel tentativo di capire veramente cosa ci sia dietro la morte del figlio: la trama gialla è accompagnata, con un effetto di contrappunto che mostra una grande perizia, dalla guerra esistenziale del protagonista contro una marea nera che dalla California, la terra di un sogno ormai moribondo, rischia di propagarsi e travolgere la «dirittura morale» e il rigore del suo mondo, fatto di solidità e di un profondo legame con la terra.

Come i personaggi di Dostoevskij
Una guerra la cui posta è altissima, per un uomo che, simile in questo ai grandi personaggi dostoevskiani, si è sempre sentito fortunato «come un giocatore d’azzardo con le pile delle sue vincite davanti», ma che ha anche sempre saputo che «il gioco prosegue, e le probabilità di avere la meglio sul banco sono di quattro a uno in suo sfavore».

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