Thomas Hettche affida alle marionette il riscatto da spaventi irreparabili
Scrittori tedeschi «Il filo del cuore», da Bompiani
Scrittori tedeschi «Il filo del cuore», da Bompiani
Al di là di ogni rappresentazione e presa di posizione rispetto alla realtà storica e sociale, per Thomas Hettche è la capacità di animazione a conferire alla letteratura la sua magia e la sua carica di energia utopica. E questo vale tanto più per un’altra forma di arte alla quale ha dedicato Il filo del cuore Romanzo dell’Ausburger Puppenkiste, il teatro delle marionette di Augusta (traduzione di Francesca Gabelli, Bompiani, pp. 240, € 20,00). Generazioni di bambini sono cresciuti guardando gli spettacoli di questo teatro nei programmi della televisione pubblica tedesco-occidentale, che cominciò a trasmetterli dal 1953, quando era chiaro come fossero dei fili a muovere le marionette e il mare fosse fatto di pellicola di plastica trasparente dipinta di blu: lo ha ricordato lo stesso Hettche in una intervista, aggiungendo: «eppure si credeva a tutto», tutto acquisiva una vita propria. La Ausgurger Puppenkiste continua ancora oggi ad allestire i suoi spettacoli nel proprio teatro, ed è da qui che si avvia il romanzo. Dopo avere assistito a una rappresentazione, una dodicenne si libera dalla mano del padre e va a rannichiarsi con il suo iphone in un angolo del foyer, dove scopre una porticina nascosta che la porterà alla soffitta del teatro. Là ritrova tante vecchie marionette e soprattutto incontra il fantasma della loro creatrice, Hannelore Marschall, detta Hatü, che le racconta la storia di quel teatro costruito da suo padre contro le brutalità della seconda guerra mondiale e le miserie del dopoguerra, e per decenni da lei stessa diretto.
Altrove, in un ospedale militare, durante la guerra, Walter Oehmichen costruisce le sue prime marionette e scopre che i suoi piccoli spettacoli possono dare sollievo ai soldati feriti. Il conflitto bellico è al suo culmine quando può tornare a casa, dove continua a allestire i suoi spettacoli insieme alla famiglia, mentre è direttore regionale della Camera del teatro del Reich senza tuttavia essere nazista. Nel dopoguerra le sue marionette gli servono anche per rimuovere questa connivenza e promuovere un programma di rieducazione: «Dobbiamo raggiungere i cuori dei giovani che sono stati corrotti dai nazisti. E i fili con cui possiamo riallacciarli alla cultura sono i fili delle mie marionette», dice al nuovo direttore del Teatro comunale della sua città.
Le devastazioni della guerra, l’Olocausto, i meccanismi di rimozione della Germania occidentale del dopoguerra sono restituiti da uno sguardo infantile di una laconicità a tratti abbagliante. Ma Hettche non è interessato tanto smascherare le complicità e le connivenze della generazione dei padri, quanto piuttosto a indagare l’attrazione misteriosa che semplici spettacoli di marionette possono esercitare anche su persone sconvolte da spaventi irreparabili.
In alcuni punti il romanzo si muove sul crinale di un sentimentalismo un po’ di maniera, come quando racconta dell’incontro di Hannelore Marshall con Michael Ende e fa dire al celebre autore di Momo, della Storia infinita e delle Avventure di Jim Bottone, divenute famosi grazie alla celebre messinscena di Oehmichen: «in ogni uomo vive un bambino, che si abbiano nove o novant’anni… Questo bambino che è in noi rappresenta il nostro futuro fino all’ultimo giorno di vita».
Al di là di qualche cedimento alla retorica dei buoni sentimenti, Il filo del cuore riesce a essere un affascinante romanzo sull’infanzia come età perduta eppure sempre a noi vicina, capace di alimentare la nostra resistenza a ciò che si impone come realtà dei fatti.
Raccontando alla dodicenne senza nome dei nostri giorni la storia di una generazione la cui infanzia è stata compromessa dal nazismo, Hatü non a caso fa iniziare la sua storia con lo scoppio della guerra, che la costringe a farsi improvvisamente adulta. Propro la costruzione, sin da bambina e per tutta la vita, delle sue marionette, le permette di salvare qualcosa di quell’infanzia negata. Ma una frase di Hitler la tormenta, «perché suona come la maledizione della fata cattiva di una fiaba: E non saranno più liberi per tutta la vita». Anche le marionette che costruisce per resistere sono insidiate sin dall’origine dal quel maleficio, come mostra il pupazzo chiamato Kasperl, che semina terrore anche nella soffitta dov’è finito insieme alle altre marionette. Hatü l’aveva intagliato durante la guerra, in un campo per bambini, conferendogli inconsapevolmente i tratti somatici che il discorso antisemita nazista attribuiva agli ebrei.
L’arte può perpetuare pregiudizi rovinosi anche contro la nostra volontà, ma può disarmarli attraverso il gioco della funzione. «Non sono le storie che raccontiamo a essere fiabesche, è il narrare stesso che è una favola», fa dire Hettche al fondatore del Teatro delle marionette di Augusta.
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