Visioni

«The Power of The Dog», la furiosa debolezza degli uomini

«The Power of The Dog», la furiosa debolezza degli uominiFoto Netflix

Venezia 78 Jane Campion adatta un romanzo di Thomas Savage del 1967: un western giocato sul filo delle ambiguità, con Benedict Cumberbatch e Kirsten Dunst

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 3 settembre 2021

Una grande casa nel mezzo della frontiera, due fratelli allevatori, le mandrie, la natura, i cow boy: il tempo sembra essersi fermato tra uomini e cavalli fino a quando un’automobile non attraversa l’orizzonte. Metà anni Venti, Montana, quegli interni cupi di legno e teste di cervo appese alle pareti sono parte di un paesaggio «letterario» come i maschi rudi e sporchi che ridono, bevono, fanno sesso nei saloon di antica memoria con le puttane: una volta sul tavolo ci saltavano i cavalli, racconta Phil coltivando un passato già leggendario di «vero» machismo che persino un bagno caldo minaccia. Lui infatti non si lava mai. A differenza del fratello George, detto «panzone», gentile e sempre in giacca e camicia (Jesse Plemons) che passa ore immerso nella vasca e non solo la domenica. Phil (Benedict Cumberbatch) è invece rude, capo carismatico dei ragazzi che lavorano al ranch con le sue storie e quello sguardo capace di cogliere l’invisibile che gli ha trasmesso l’amico e mentore Bronco Henry, figura straordinaria di cui coltiva la memoria con devozione.

Finché in questo paesaggio non arriva una minaccia, una donna, non una nuova cuoca o cameriera bensì la moglie che George ha sposato in segreto tradendo il loro patto, la loro fratellanza. Rose (Kirsten Dunst) è la padrona di un ristorante in paese per bovari che lei arreda sfoggiando vezzi da lusso cittadino con tovaglia bianca e fiori di carta sui tavoli. È vedova, il marito si è impiccato, e ha un figlio, bello, e ambiguamente fragile, la sua ostentata «femminilità» per i cowboy è quasi una provocazione, gli urlano «femminuccia», «frocetto», Phil specialmente per il quale la virilità è qualcosa da affermare in ogni gesto. Ma Peter, questo il nome del ragazzo (Kodi Smit Mc-Phee) è davvero così timoroso come credono?

IN QUESTA geografia umana Jane Campion ripercorre i miti western per sorprenderne la narrazione affidandosi a una scrittura precisa, ironica, di profondità. Il punto di partenza per The Power of the Dog – produzione Netflix, in concorso, sulla piattaforma dall’1 dicembre – è il romanzo omonimo di Thomas Savage, pubblicato nel 1967 e definito da molta critica «un western della complessità». Nelle note sui materiali stampa Campion scrive di esserne rimasta «affascinata» e anche che non pensava mai di farne un film visti «i tanti personaggi e temi maschili». Che la storia sia sulla rappresentazione della mascolinità a se stessa è dichiarato subito, la regista (sua la sceneggiatura) non è però autrice da semplificazioni, ai binomi in contrappunto – buoni/cattivi, giusto/sbagliato – predilige le sfumature, i non detti, le zone in ombra delle emozioni che illuminano quanto c’è oltre le apparenze – la lezione che il povero Phil non aveva capito dal suo amico Bronco Henry.

Quando Rose arriva al ranch la guerra dell’uomo contro la sposa bionda e raffinata del fratello è già cominciata. Lui non crede alle sue belle maniere ostentate, ai vestiti eleganti, alle tazzine da the e alla tavola apparecchiata: Rose che nelle parole del fratello innamorato suona il pianoforte tanto da comprargliene uno a coda, per Phil «strimpella» appena, un motivetto serve per umiliarla, tormentarla, renderla folle al punto che la donna inizia a bere fino a devastarsi.

LE COSE peggiorano quando in estate arriva il giovane Peter; porta i jeans a vita alta e un cappello da Norma Desmond versione cow boy. Gli uomini sghignazzano, Phil lo osserva, manifesta disprezzo anche se in quel ragazzo silenzioso qualcosa lo spiazza. È indifeso? Forse, ma da bravo studente di medicina ha messo già da parte le emozioni, e seziona freddamente coniglietti soffici per fare pratica col bisturi. Pure Phil scuoia ossessivamente il bestiame quasi che mettendo a nudo gli animali protegga se stesso. Campion sposta la tensione della minaccia in un’atmosfera rarefatta; non succede nulla, è già successo tutto nei gesti, negli sguardi, nella disposizione dei corpi nello spazio.
È il teatro dei suoi personaggi che sembra interessarla, quella crepa tra l’evidenza e quanto essa cela: l’erotismo represso dei maschi, la frustrazione, la solitudine.

È il desiderio il terreno della sua azione in una danza delle apparenze di cui è partecipe anche la «verità» di Phil; omofobo, crudele, sprezzante ha indossato l’abito del bifolco per paura di se stesso, del suo desiderio omosessuale inconfessabile alla società. Proprio come per piacere a chi conta Rose, suo fratello, i genitori hanno messo quello della borghesia – il momento in cui Rose gioca a tennis col figlio al ranch è sublime quasi quanto la castrazione che fa Phil ai vitelli. Ma la «forza», contrariamente a quanto l’uomo si dice, non è fatta semplicemente di muscoli, è questione di calcolo, di emozioni, di precisione chirurgica nel dissezionare i sentimenti.

LA SFIDA della seduzione che Campion raccoglie sin dai tempi di Lezioni di piano e di cui sa rendere il respiro sullo schermo nei dettagli, un fremito di cavalli, una porzione di cielo, il fumo della sigaretta, lo sguardo chiaro del ragazzino la cui consapevolezza è già potere e sottile indifferenza. Nel suo quartetto Campion sorprende il mito, la sua codificazione i suoi rovesciamenti, a partire dalla scelta del centro che per lei è Phil, il personaggio di cui toglie a poco a poco le stratificazioni rivelandone l’inadeguatezza nella relazione con ogni altro e col mondo; non si tratta nel suo cinema di giudicare o di stigmatizzare, nel groviglio doloroso che è la crudeltà impotente dell’uomo c’è molto del nostro tempo, al di là del gender, uno stato di cui Campion coglie l’universalità nella violenza e nel dolore, in una furiosa debolezza, materia manipolabile per chi sa intuirla.

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