Visioni

«The Post» e la libertà di stampa, «ancora una volta sotto attacco»

«The Post» e la libertà di stampa, «ancora una volta sotto attacco»

Cinema Ieri a Milano l’incontro con Steven Spielberg, accompagnato da Meryl Streep e Tom Hanks, sul suo nuovo film. La storia dei Pentagon Papers e della prima coraggiosa editrice donna Katharine Graham

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 16 gennaio 2018

Vietnam 1966, tra le foglie della giungla grondanti acqua e oscurità i ragazzi americani muoiono. Come i vietnamiti, milioni, massacrati brutalmente, bruciati dal Napalm insieme alle loro case, villaggi interi. A chi va meglio tra i marines torna a casa con una gamba in meno, il cervello bruciato, la roba nelle vene. Però il presidente Johnson dice che si fanno progressi decisivi e lo stesso quelli prima di lui e quelli dopo. Ma non parla del Vietnam The Post, il nuovo film di Steven Spielberg – in sala dal 1 febbraio. O meglio sì come di altre guerre americane seguendo quello che il regista chiama «il pendolo del tempo» tra ieri e oggi, tra un passato e un presente che si toccano, ripetendo le stesse analogie – non fu l’Iraq una guerra basata sulle falsità che la presidenza Bush e il suo staff utilizzò per attaccare?

Poi accade che qualcuno ne ha abbastanza e decide di divulgare un rapporto pericolosissimo voluto nel 1967 da Robert McNamara – lo ricordate nella magnifica intervista- saggio sulla storia americana di Errol Morris The Fog of War? – allora segretario della Difesa, in cui si comprende che gli interessi di geopolitica sono la sola ragione – non sconfiggere i vietnamiti del nord o il comunismo come viene ripetuto – di una guerra decisa molti anni prima (il titolo del rapporto era «Storia delle decisioni Us in Vietnam 1945-66») sulla quale almeno quattro amministrazioni da Truman a Eisenhower a Kennedy a Johnson hanno mentito al Congresso e agli americani.

La persona in questione, un insider, si rivolge alla stampa per divulgarli, al potente «New York Times» che comincia a pubblicare i Pentagon Papers finché Nixon non li blocca. Siamo nel 1971, e le vicende di The Post sembrano quasi il prologo al Watergate che porterà alla rovina lo stesso Nixon poco dopo. Gli ambienti sono gli stessi, la redazione del «Washington Post», la cui editrice Katharine Graham (Meryl Streep) , che si è trovata alla testa del giornale dopo il suicidio del marito, sembra troppo spesso «non all’altezza» del ruolo, specie agli occhi del suo ambizioso direttore Brad Bradlee (TomHanks), che invece vorrebbe rendere «The Post» un vero giornale non un giornaletto familiare di provincia.

E quale occasione migliore che continuare la pubblicazione del rapporto sospesa sul «NY Times»? L’insider quasi un precursore di Snowden braccato e (giustamente) paranoico si fa giurare che li pubblicheranno. Non è solo un fatto privato, l’ambizione allo scoop – che pure c’è: si tratta di difendere il primo emendamento sulla libertà di stampa e di parola che se si tace ora sarà per sempre. È questa la materia di The Post, magnificamente sviscerata nel passato quando era tutto più complicato, non c’erano computer e telefonini, chiavette e digitali, e fotocopiare migliaia di pagine occupava ore, forse giorni e quintali di carta. La sua declinazione è però il presente, tra quelle rotative si respira l’aria dei nostri tempi, Trump e i suoi attacchi continui a giornalisti e all’informazione, ma anche, e forse soprattutto il ruolo delle donne nella società e nella professione, una riflessione sincronizzata – anzi quasi precorritrice – del dibattito che si è aperto dal caso Weinstein in poi. Del resto è questo il potere dell’immaginario….

Katharine Graham è stata figlia (del fondatore del giornale) e moglie, nessuno ci crede che possa prendere una decisione importante, che abbia una autorevolezza fuori dal ruolo di padrona di casa perfetta amica di tutti, McNamara compreso. «In un ambito diverso dalla mia protagonista oggi le donne hanno trovato la loro voce, è questo che ci insegna quanto è accaduto con il caso Weinstein. Ciò che abbiamo scoperto ha permesso a chi lo ha subito di liberarsi e di superare la vergogna sia un fatto accaduto quarant’anni o pochi mesi fa. Spero che si vada avanti» ha detto Spielberg nell’incontro di promozione del film ieri a Milano dove era accompagnato dai suoi protagonisti, Tom Hanks e Meryl Streep.

Il problema della libertà di stampa messo in luce nel film è più che mai attuale, e non solo nell’America di Trump. C’è la censura esercitata da pressioni esterne ma ci sono anche le «cattive abitudini» interne, il giornalismo embedded, l’omologazione…

I giornalisti dovrebbero essere i guardiani della democrazia, è per questo che la stampa libera è un diritto. Tutti vogliono la verità ma c’è anche molta gente disposta a sentire solo ciò che gli fa comodo. E per questo sono disposti a credere a ogni falsità. Altri invece rifiutano di accettare una unica versione come risposta e continuano a guardarsi attorno, a documentarsi. Oggi è sempre più necessario farlo di fronte alla quantità di fake news e di disinformazione disseminata intenzionalmente. Nel 1971, il presidente Nixon ha cercato di negare la libertà di stampa vietando la pubblicazione dei Pentagon Papers, e c’è voluta la decisione della Corte suprema per impedirlo. Il suo è stato un atto inaudito, era la prima volta che accadeva dalla Guerra civile americana. Credo che oggi la libertà di stampa sia di nuovo sotto attacco, se invertiamo i numeri, 1971-2017, quando ho finito il film, le cifre sono le stesse. Forse anche per questo The Post in America è stato molto supportato dalla stampa che è costretta a respingere continuamente gli attacchi di questa amministrazione. E a proposito di «fake news»: troppo spesso è un’etichetta utilizzata per bollare informazioni sgradite al presidente. Al di là del messaggio politico però ci tengo a dire che questo film vive grazie allo stupefacente lavoro degli interpreti, una figura come Katharine Graham ha trovato la sua voce in Meryl Streep e lo stesso vale per Tom rispetto a Ben Bradlee.

Katharine Graham è una figura che cresce pian piano. È come se acquistasse una consapevolezza del suo ruolo nel corso degli eventi.

Per me è il centro del film. All’inizio ci appare come una persona che non sa stare al suo posto, non ha la determinazione di Bradlee, si sente dilaniata dagli affetti, dalle persone che non riesce a vedere come degli avversari. Poi trova la sua voce e riesce a imporsi. Il suo è un gesto di coraggio ma soprattutto segna una presa di coscienza per tutta la stampa. Se non ci fosse stato questo passaggio non sono sicuro che poi Graham avrebbe autorizzato l’inchiesta sul Watergate.

Al di là della libertà di stampa c’è anche un aspetto, nel film, che si concentra sulla competizione, sulla corsa alla notizia, specie nella figura di Bradlee.

Nel 1971 il «Washington Post» era un giornale di secondo piano rispetto al «Washington Star» che invece era la stella a Washington. Ma Bradlee vuole sfidare nientemeno che il «NYT», il più grande giornale allora come oggi seguendo l’ambizione di un futuro grandioso per il Post e per lui ovviamente. Questo suo modo di essere gli ha permesso di andare avanti durante il Watergate, non ce l’avrebbe fatta diversamente.

Torniamo al personaggio di Graham: è inevitabile pensare a quanto sta accadendo oggi, ai movimenti e alle prese di posizione dopo il caso Weinstein.

Banalmente potrei dire che parliamo di un archetipo, la battaglia tra i sessi. Probabilmente le questioni che solleva, e che sono state materia di romanzi, film, serie tv, sono destinate a non avere una risposta definitiva. Le donne hanno mostrato in più occasioni di avere la forza di rompere lo schema in cui gli uomini vogliono chiuderle. Hanno avuto una grande opportunità quando durante la seconda guerra mondiale, mentre gli uomini erano al fronte a combattere, hanno preso in mano l’economia americana, la leadership delle industrie, dei cantieri navali. Ma quando gli uomini tornano a casa le donne tornano dietro ai fornelli senza che venisse minimamente riconosciuto il ruolo che hanno svolto. È una lotta di potere, e io non ho gli strumenti per offrire una risposta a questo. Però posso dire una cosa: se le donne hanno provato che possono rivestire ruoli di responsabilità gli uomini non hanno ancora imparato a comportarsi in modo adeguato e a accettare un no come risposta.

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