In quel filone del cinema giapponese dove viene rappresentata la classe operaia con le sue ragioni e le sue lotte, un filone forse iniziato con i documentari del collettivo Prokino fra il 1929 e il 1934, merita un posto speciale Toi ippon no michi (The Far Road). Uscito sul finire degli anni settanta, nel 1977 per essere precisi, quando il periodo delle grandi proteste, quelle contadine, studentesche e operaie stava ormai svanendo, o almeno allontanandosi dall’attenzione del grande pubblico, il film rappresenta una riuscitissima anomalia artistica. Prima di tutto perché si tratta, purtroppo, dell’unico lungometraggio diretto da Sachiko Hidari, attrice pluripremiata che lavorò fra gli altri con Shohei Imamura, Yasuzo Masumura e Susumu Hani, che fu anche suo marito per alcuni anni. Ma anche perché è un lavoro prodotto e finanziato dal sindacato delle ferrovie nazionali, i cui membri, è bene ricordarlo, non potevano aderire a scioperi in quanto lavoratori in un ente pubblico. Per queste ragioni The Far Road è un ibrido che mette insieme il tratto documentaristico tipico dei lavori di non fiction dedicati alle lotte operaie, con un senso di freschezza stilistica che ha caratterizzato certo cinema giapponese indipendente degli anni sessanta e settanta.

Il film fu invitato a Berlino nel 1978, ma poi non se ne parlò più molto, recentemente però, anche grazie al rinnovato interesse verso le poche donne che hanno potuto lavorare dietro la macchina da presa in Giappone, il lungometraggio è stato riscoperto e proiettato sia nell’arcipelago che in Europa e negli Stati Uniti.

Il film inizia il 14 ottobre 1975, il Giorno della Ferrovie, quando Ichizo Takinoue, un dipendente delle ferrovie dello stato, si reca a Sapporo in Hokkaido con la moglie Satoko per ricevere il suo premio per i trent’anni di servizio. La sera però, le tensioni e i sentimenti repressi dell’uomo vengono a galla quando, senza alcuna ragione, si oppone violentemente alla proposta di matrimonio della figlia Yuki. Satoko, interpretata dalla stessa Hidari, ritorna con la memoria al giorno in cui ha sposato Ichizo e riflette, con una serie di flashback, sui cambiamenti che le ferrovie e la meccanizzazione del lavoro hanno causato nella loro vita. Tutto inizia verso l’inizio degli anni sessanta, quando la prima ondata di modernizzazione colpisce le ferrovie e la sicurezza del suo lavoro viene minacciata soprattutto quando fallisce gli esami per una eventuale promozione.

Nel 1966, con l’introduzione di nuove tecnologie cominciano i primi licenziamenti e Satoko spinge il marito ad unirsi al sindacato e a sostenere la lotta per il posto di lavoro e un salario migliore.

Le prove attoriali sono ottime, a cominciare dalla stessa Sachiko Hidari nella parte della moglie, ma soprattutto Hisashi Igawa in quella del ferroviere, volto e gestualità che ben rappresentano l’angoscia di chi si è spaccato la schiena per anni tutta la vita, ma che non riesce più ad adattarsi ai tempi che cambiano. Come scritto più sopra, stilisticamente il film utilizza voci e interviste a lavoratori e sindacalisti, fotografie di proteste e la stessa scena iniziale è filmata al vero Giorno delle Ferrovie nell’ottobre del 1975. Allo stesso tempo però, il lungometraggio possiede una struttura libera e quasi anarchica, che si intensifica e deraglia in qualcosa di ancora più diverso negli ultimi dieci minuti, quando la coppia si reca nel sud del Giappone assieme a sua figlia. Le stranianti musiche di Minoru Miki e il paesaggio desolato delle miniere di carbone abbandonate, sono la combinazione perfetta che dona al finale un tono lirico e quasi surreale.

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