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«The Donald» nelle mani di un piccolo giudice

«The Donald» nelle mani di un piccolo giudice

E adesso? La condanna di Trump per tutti i 34 reati fiscali di cui era imputato a New York mette le sorti delle elezioni di quest'anno negli Stati uniti nelle mani di un uomo solo, che probabilmente avrebbe fatto volentieri a meno di questa responsabilità

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 1 giugno 2024

E adesso? La condanna di Trump per tutti i 34 reati fiscali di cui era imputato a New York mette le sorti delle elezioni di quest’anno negli Stati uniti nelle mani di un uomo solo, che probabilmente avrebbe fatto volentieri a meno di questa responsabilità.

Il giudice Juan Merchan. I 12 giurati hanno stabilito che Trump era colpevole ma ora spetta a Merchan emanare la sentenza, l’11 luglio.
La storia non è fatta dai grandi personaggi: come scrisse a suo tempo Bertold Brecht, «Il giovane Alessandro conquistò l’India da solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?», Brecht aveva ragione ma qualche volta accade che le decisioni di una singola persona abbiano conseguenze gravi e durevoli nel futuro. Se il generale George Meade non avesse deciso di difendere vittoriosamente le posizioni nordiste a Gettysburg, nel luglio 1863, forse la Guerra di secessione sarebbe finita in modo diverso, la schiavitù sarebbe durata ancora decenni e gli Stati Uniti non sarebbero mai diventati una superpotenza perché divisi in due repubbliche ostili fra loro. Saranno circa 130 milioni gli americani che voteranno per il nuovo presidente, il 5 novembre prossimo, ma arriveranno a questo appuntamento con stati d’animo molto diversi tra loro a seconda delle decisioni che prenderà un piccolo giudice nato a Bogotà nel 1964 e arrivato negli Stati uniti con la famiglia quando aveva sei anni.

In teoria, il giudice Merchan potrebbe condannare l’ex presidente a parecchi anni di galera (negli Stati Uniti le frodi fiscali e finanziarie sono prese sul serio) da scontare immediatamente, gettando la campagna elettorale nel caos. In pratica è difficile che si assuma una tale responsabilità, che potrebbe attizzare immediatamente la guerra civile. Potrebbe decidere di dare a Trump soltanto un periodo di libertà vigilata, come avvenne a suo tempo a Berlusconi, “condannato” a fare un certo numero di ore di servizio sociale. Ma sarebbe come scrivere nero su bianco che il potere del denaro e dell’intimidazione mettono l’ex presidente al riparo da tutto e Merchan, nato in Colombia e considerato incorruttibile, potrebbe trovare immorale una soluzione del genere. Il giudice potrebbe decidere per una pena agli arresti domiciliari, che non avrebbe soltanto un valore simbolico, perché costringerebbe Trump a gestire la sua intera campagna elettorale senza poter uscire dalla villa di Mar-a-lago in Florida, una limitazione molto pesante delle sue possibilità di azione politica.

Il primo dei processi all’ex presidente ha creato non solo una situazione senza precedenti nella storia americana ma reso impossibili le previsioni sulle elezioni del prossimo novembre. Prima domanda: Trump, in quanto condannato, può votare? Può essere candidato? La risposta è sì: è stato condannato a New York dove la legge non prevede la perdita del diritto di voto in caso di condanne penali.
Può essere candidato, come lo fu Eugene Debs, lo storico leader socialista che era addirittura in cella quando corse per la presidenza nel 1920. Era stato condannato a 10 anni di carcere per la sua opposizione alla partecipazione degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale.

Seconda domanda: le sue possibilità di vittoria diminuiscono? Non è detto. Trump ha un seguito inscalfibile tra gli elettori repubblicani e l’intero partito lo sostiene, perfino Nikki Haley, la sua concorrente nelle primarie fino a poche settimane fa. Questa base di consenso lo ha mantenuto alla pari con Biden nei sondaggi fino ad oggi e addirittura in vantaggio nei cosiddetti Swing States, cioè negli Stati in cui il risultato si gioca sul filo di poche migliaia di voti. Stati che sono solo mezza dozzina: Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Georgia, Arizona e Nevada ma tengono nelle mani dei loro elettori le chiavi della Casa Bianca.

La bizzarria del sistema elettorale americano è che consente di vincere le elezioni a chi ha avuto meno voti su scala nazionale ma ne ha avuti di più nel collegio elettorale (i delegati che effettivamente eleggono il presidente). È esattamente ciò che successe nel 2016, quando Hillary Clinton raccolse quasi tre milioni di voti più di Trump ma non riuscì ad ottenere una maggioranza nel collegio elettorale perché il suo avversario prevalse in Michigan, Wisconsin e Minnesota raccogliendo esattamente 77.744 voti in più, su oltre13 milioni di voti validi nei tre stati.

Negli stessi tre stati, più la Georgia, Biden vinse per un soffio nel 2020: per esempio, in Georgia raccolse appena 11.000 voti in più di Trump, che cercò di rovesciare il risultato manipolando i dirigenti repubblicani di questo Stato (la cosa è oggetto di un altro dei vari processi dell’ex presidente fellone). Su scala nazionale Biden raccolse circa sette milioni di voti più di Trump.
Questa incertezza da un lato impedisce di fare previsioni fondate perché mancano ancora cinque mesi alle elezioni e in questo periodo può succedere di tutto (Trump in cella? Biden inabile a causa dell’età?). Dall’altro, i piccoli spostamenti negli stati-chiave fanno pensare che anche un numero limitato di elettori indipendenti scandalizzati per la condanna di Trump potrebbero cambiare le loro decisioni e astenersi o votare per Biden.

I sondaggi stimano questi elettori nel 6% del corpo elettorale: pochi, ma un numero sufficiente a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Il verdetto dei 12 giurati a New York e la decisione del giudice Merchan l’11 luglio potrebbero davvero essere determinanti per le elezioni e portare alla riconferma di Biden alla presidenza.

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