Ci sono stati giorni cruciali che hanno cambiato il mondo, e quanto si svolse a Parigi il 27 luglio del 1794 ne fa uno di questi. In quella giornata, chiamata col nuovo calendario rivoluzionario 9 termidoro, la Convenzione, e cioè l’Assemblea nazionale della prima repubblica francese, decideva – dopo un dibattito drammatico – l’arresto di Robespierre, il grande leader giacobino che aveva guidato la Francia nei due anni precedenti. Il come e il perché di questo evento così decisivo sono stati oggetto di molti studi storici, ma ora il nuovo libro di Colin Jones, La caduta di Robespierre Ventiquattro ore nella Parigi della Rivoluzione (traduzione di Alessandra Manzi, Neri Pozza, pp. 681, euro 38,00) ne offre una ricostruzione intrigante e innovativa. Quel giorno viene infatti raccontato da Jones nei dettagli di una immersione nel contesto brulicante della città in rivoluzione: «Registrando certo le notizie e le informazioni che circolarono, ma anche seguendo le voci, i pettegolezzi, le emozioni, gli ordini e i decreti, gli uomini e le donne, i cavalli, le pistole, le picche e i cannoni, mentre si muovevano all’interno della città e tutto intorno nel corso di quelle ventiquattro ore». Il risultato è un racconto coinvolgente, scritto con grande scioltezza e, grazie anche all’impegno della traduttrice, assai godibile.

Immersione nel contesto
Noto storico non solo della rivoluzione ma anche della cultura collettiva del Settecento francese, Jones dedica ogni capitolo a un’ora di quella famosa giornata, mettendo il lettore in una posizione simile a quella di uno spettatore di fronte a uno sceneggiato Tv, o a un pezzo di cinéma vérité. In questa scelta ha pesato – come Jones stesso dichiara – l’influenza dell’OuLIPo, il gruppo letterario in cui militavano George Perec e Raymond Queneau, sostenitori dell’idea secondo la quale le restrizioni formali stimolano l’immaginazione e quindi la creatività; ma di certo ha anche contato l’attrazione per il modello drammaturgico di quel geniale letterato e tragediografo settecentesco che fu Louis-Sébastien Mercier (che fra l’altro nel Tableau de Paris aveva raccontato in dettaglio la vita cittadina) e forse anche una sorta di adesione alla struttura del dramma classico francese, da Corneille a Racine, imperniato sulle tre unità aristoteliche di azione, di spazio e di tempo.

I risultati conoscitivi di questa esplorazione minuta di una giornata si traducono essenzialmente nella indicazione di non considerarla conforme a quello che sarebbe stato il cosiddetto regime termidoriano. Bisogna ricordare che il contesto di quel giorno era stato determinato, giusto un mese prima, dalla vittoria dell’esercito francese a Fleurus, il 26 giugno del 1794. Un successo che aveva reso la Francia più sicura, sgombrando il campo dallo spauracchio della possibile fine della rivoluzione a seguito di una sconfitta militare che aveva costituito la principale giustificazione del clima di emergenza e delle politiche del «terrore».

Robespierre però – ritornato in prima linea dopo una temporanea eclissi – aveva sostenuto la necessità di dare seguito alla politica precedente. E anzi, in un discorso pronunciato il giorno prima alla Convenzione e al Club dei Giacobini – aveva fatto intravedere un irrigidimento e ulteriori possibili epurazioni dei dissidenti.

Nel suo saggio, Jones mostra efficacemente come il 9 di termidoro non vada interpretato in quanto esito finale di un complotto lungamente preparato e vada invece considerato il frutto accidentale della paura per una ulteriore e tragica stretta violenta. Accadde però che, dopo l’arresto, Robespierre fu liberato dagli uomini della Comune suoi partigiani e per un momento sembrò che le forze in armi a lui fedeli potessero prendere il sopravvento. Guardia Nazionale e Sezioni cittadine si schierarono tuttavia in maggioranza dalla parte della Convenzione, l’opposizione armata venne domata e Robespierre, catturato di nuovo, fu decapitato in Place de la Concorde.

Secondo la ricostruzione di Colin Jones, dunque, il 9 termidoro va considerato «un’operazione per rimuovere un uomo e non per rovesciare un regime»: lo storico inglese descrive quella giornata come il «felice incontro» tra il popolo di Parigi e una Convenzione ancora a guida giacobina a montagnarda. Questa lettura del popolo di Parigi e della Convenzione come universi rivoluzionari unitari andrebbe tuttavia sfumata, e soprattutto richiederebbe una visione prolungata al di là di quelle fatidiche ventiquattrore.

Come si sa, l’affermazione della classe dirigente seguace di Robespierre, era passata attraverso una serie di epurazioni violente che avevano ripetutamente colpito non solo gli avversari girondini ma anche hebertisti «a sinistra» e dantonisti «a destra». Ora, ciascuno di questi gruppi aveva seguaci ed esponenti più o meno di spicco nei quartieri popolari e nelle sezioni, oltreché giornalisti e attivisti impegnati nella comunicazione politica.

Drappelli contrapposti
Il popolo di Parigi, attivato dal clima rivoluzionario, era insomma diviso in gruppi e fazioni, esattamente come la Convenzione era articolata in drappelli e partiti diversi. E tra questi gruppi convenzionali e l’universo popolare c’erano canali di collegamento personali, che venivano esaltati dall’appello al popolo, ovvero dalla pressione popolare esercitata mediante manifestazioni, anche armate, sulle decisioni politiche da prendere in assemblea: le journées.

Inoltre, nella denuncia delle misure eccezionali di pubblica sicurezza, la parola terrore si era ripetutamente fatta strada ben prima di 9 termidoro. Certo, all’epoca quel termine non indicava ancora un regime, il «Terrore» con la T maiuscola, e tuttavia era usata da tempo per criticare le misure straordinarie di pubblica sicurezza, diventando anzi un termine spartiacque dello scontro politico: mentre un gruppo di deputati già nel novembre 1793 aveva denunciato alla Convenzione l’instaurarsi di un «sistema del terrore» liberticida, esponenti giacobini e montagnardi avevano invece varie volte chiesto che quel sistema venisse mantenuto, e anzi rafforzato.

Nei mesi successivi si verificò un significativo slittamento politico che allargò progressivamente le responsabilità dal nucleo seguace di Robespierre a una sezione importante della classe dirigente giacobina, una deriva che spinse alla instaurazione di ciò che verrà poi chiamato il regime termidoriano. Con la riammissione di deputati dantonisti e girondini mutava anche la composizione della Convenzione e iniziavano importanti modifiche politiche: limitato il raggio di azione del comitato di salute pubblica, veniva sciolto il Tribunale rivoluzionario, chiuso il club dei giacobini; aboliti calmiere dei prezzi e maximum dei salari e approvata una nuova Costituzione. Ora, certo, la parola Terrore diveniva il modo di indicare un regime ormai passato e la Repubblica francese entrava in una sua nuova fase, chiamata, per l’appunto, termidoriana, indicando con quella parola che tutto era appunto cominciato il 9 termidoro.