Dieci minuti a settimana. Questo, regolamento penitenziario alla mano, è il tempo che ciascun detenuto (peraltro a proprie spese) può trascorrere al telefono coi propri familiari: un tempo che può essere aumentato dalle direzioni degli istituti in casi di particolare urgenza o in presenza di figli di età inferiore a dieci anni, ma che rimane in ogni caso fortemente contingentato.
Si tratta di una regola inspiegabile (se si eccettua l’esigenza di evitare che i detenuti gestiscano dal carcere eventuali traffici illeciti, esigenza che peraltro con le attuali tecnologie sarebbe possibile soddisfare agevolmente in altro modo), che grava le persone detenute di una restrizione irrazionale e che contribuisce ad affliggerle ulteriormente.

Come consigliere regionale del Lazio, avendo svolto un intenso lavoro ispettivo nelle carceri della mia regione, ho potuto toccare con mano gli effetti nefasti di questa limitazione, di cui il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella ha parlato sabato scorso su questo giornale insieme ad altre regole penitenziarie particolarmente “punitive”, sottolineando la necessità di modificarla per rispondere ai bisogni delle persone detenute e per tutelare il loro diritto alla vita familiare.

Quando parlo di effetti nefasti non mi riferisco soltanto alla frustrazione dei detenuti per non poter sentire i propri cari ogni qual volta lo desiderano, ma anche a esiti molto più problematici: questa limitazione, ad esempio, è alla base delle (ormai frequentissime) introduzioni illecite di telefoni cellulari negli istituti penitenziari, che una volta scoperte possono essere sanzionate fino alla condanna a ulteriori anni di reclusione.

Non si tratta, naturalmente, dell’unica regola ingiustamente afflittiva che vige nei nostri istituti penitenziari: ma io ritengo che sia emblematica di come in carcere si possano produrre conseguenze disastrose sulla vita delle persone a partire da elementi di cui si fa fatica a cogliere il senso.

In altri Paesi le persone detenute possono telefonare ai loro familiari ogni volta che vogliono, in alcuni casi gratuitamente. È una possibilità che contribuisce in modo significativo a ridurre la tensione all’interno delle strutture e al tempo stesso garantisce ai reclusi un trattamento più umano e rispettoso dei loro diritti: una possibilità per la quale credo sia arrivato il momento di battersi con forza anche nel nostro Paese.

Non sarebbe, come si dice, una rivoluzione, ma una riforma ragionevole e concreta che volendo si potrebbe attuare nel giro di poche settimane, senza alcuna controindicazione se non la (tristemente) nota argomentazione secondo la quale occorre continuare a fare così perché così si è sempre fatto: argomentazione che antepone la pura e semplice esistenza di una norma alla sua utilità, alla sua efficacia, perfino alla suo ratio.

Iniziamo da qua, dice Patrizio Gonnella, citando quella vecchia pubblicità con Massimo Lopez il cui slogan era: «Una telefonata ti salva la vita». Iniziamo da qua e proviamo a entrare nell’ottica di una realtà, quella carceraria, nella quale a salvare la vita delle persone sono spesso proprio le cose piccole, quelle che dall’esterno potrebbero sembrare marginali o addirittura insignificanti, quelle che sarebbe possibile realizzare con relativa facilità.

Realizziamo subito questa piccola grande riforma. Liberalizziamole, queste telefonate. Sono certo che avrebbe un impatto molto positivo non soltanto sulla vita dei detenuti e delle loro famiglie, ma anche sulla serenità, e dunque sulla sicurezza, delle nostre strutture penitenziarie. Poi andiamo avanti a discutere di tutto il resto.