Europa

Telecamere e filo spinato, Malakasa il centro-prigione dei sopravvissuti

Telecamere e filo spinato, Malakasa il centro-prigione dei sopravvissuti

Il naufragio di Pylos Per entrare nel campo occorre passare davanti a una bandiera greca, corredata, sulla punta dell’asta, da una grande croce cristiana. La bandiera sventola di fronte alla recinzione di doppio filo […]

Pubblicato più di un anno faEdizione del 21 giugno 2023

Per entrare nel campo occorre passare davanti a una bandiera greca, corredata, sulla punta dell’asta, da una grande croce cristiana. La bandiera sventola di fronte alla recinzione di doppio filo spinato e telecamere che circonda le strutture prefabbricate dove sono stati confinati 86 dei 104 superstiti del naufragio di Pylos, uno dei peggiori naufragi del Mediterraneo: il mare a sud del Peloponneso, finora, ha restituito 81 corpi, ma i dispersi potrebbero essere più di 550.

Gli unici rumori che si sentono nella spianata dove è situato il campo, tra le montagne a circa 40 chilometri a nord di Atene, sono quelli delle cicale, e di qualche macchina che sfreccia sulla superstrada vicina. «Non potete riprendere, e non potete avvicinarvi», ripetono come un disco rotto gli addetti della sicurezza ai giornalisti che provano a comunicare con i superstiti oltre la recinzione. I controlli si sono irrigiditi da quando un uomo, sopravvissuto al naufragio, è stato ripreso con il cellulare mentre descriveva l’intervento della Guardia costiera greca: «Hanno provato a trainare il peschereccio con una corda, e siamo finiti in mare», aveva raccontato in un video circolato su Tiktok, e la sua testimonianza, con il passare dei giorni, è la versione che più riecheggia tra i racconti di chi è sopravvissuto. Nonostante gli sforzi per non fare trapelare le testimonianze, nuovi racconti evidenziano i non detti nella ricostruzione delle autorità greche. «Quando la nave si è ribaltata, la Guardia costiera ha tagliato la corda e si è allontanata: tutti abbiamo gridato. Dopo dieci minuti sono tornati con delle piccole barche per recuperare le persone, ma non si sono spinti dove si trovava il peschereccio, hanno raccolto solo quelli che avevano nuotato e si erano allontanati», ha raccontato un superstite, la cui testimonianza è stata diffusa da «Kathimerini».

A una settimana dal naufragio le modalità con cui si sono svolti i soccorsi rimangono un mistero. La maggior parte dei superstiti è entrata nel porto di Kalamata a bordo di uno yacht privato, il Mayan Queen IV, battente bandiera delle Cayman, e la Guardia costiera non ha rilasciato dichiarazioni al riguardo. Il suo operato, ieri, è stato difeso dall’ex premier Kyriakos Mitsotakis, che ha menzionato il naufragio per andare all’attacco di Syriza a pochi giorni dal voto di domenica prossima. «È molto triste quello che sta accadendo negli ultimi giorni, con la Guardia costiera che viene presa di mira da Syriza per il tragico naufragio di Pylos. Ed è davvero molto spiacevole vedere esattamente gli stessi argomenti ripresi dalla propaganda turca» ha commentato il leader conservatore.

«Le persone con cui abbiamo parlato hanno raccontato di avere atteso in mare ore, prima di essere soccorse» racconta Maria Papamina, avvocata e coordinatrice dell’équipe legale del Consiglio greco per i rifugiati, prima di attraversare il cancello per entrare nel campo di Malakasa, dove si stanno svolgendo, in queste ore, le procedure per le domande di asilo.

Gli unici che possono parlare con chi è riuscito a salvarsi sono i familiari, arrivati a nord di Atene da tutta Europa. Il loro incontro avviene attraverso le sbarre dei tornelli che rimangono chiusi. Molti portano con sé buste piene di biscotti e patatine, sigarette e bicchieri di carta con il caffè.
«Dietro la recinzione c’è mio cugino» racconta Mohamed, che è accorso da Milano sperando di leggere il suo nome fra la lista dei sopravvissuti. «Voleva venire in Italia, per lavorare e mettere su famiglia: in Egitto la vita è troppo cara, non c’è futuro. Ma era impossibile ottenere il visto per entrare nel Paese, e così il padre ha venduto il negozio per pagargli il viaggio» racconta dopo avere fumato una sigaretta con il cugino, separati dalle sbarre. Fuori dal campo si sono radunati anche i parenti di chi risulta disperso. Saber è arrivato da Bergamo, dove lavora come operaio: non riesce ad avere notizie del cugino diciottenne, partito dal Pakistan con il sogno dell’Italia. Da tre giorni non riesce a parlare al telefono con i parenti per dirgli che il ragazzo non risulta in nessun elenco. «Quando muoiono cinquecento persone, con loro muoiono cinquecento famiglie» dice mentre i suoi occhi si riempiono di lacrime.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento