Ieri in Egitto è successo qualcosa che non accadeva da tanto tempo: gli egiziani si sono ripresi Piazza Tahrir. Il luogo simbolo della rivoluzione del 2011 e il teatro di ogni protesta anti-governativa era da anni inaccessibile. Divieto a manifestare e lavori di ristrutturazione l’hanno trasformata in un luogo inadatto al presidio, svuotato della sua natura di spazio pubblico e di dissenso.

A riempire Tahrir ieri sono stati a migliaia: hanno marciato dalla moschea al-Azhar, una delle più importanti istituzioni del sunnismo, sventolando bandiere palestinesi, e hanno abbattuto le barriere di sicurezza che ormai separano il Cairo dalla sua piazza più simbolica. La polizia ha tentato di arginarli, ne sono nati scontri con i manifestanti, a smentire gli osservatori che avevano pre-bollato i cortei come orchestrati dal Cairo.

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I MEDIA filo-governativi avevano reso pubblica nei giorni scorsi una lista dele piazze in cui poter manifestare per la Palestina, le piazze «tollerate» visto che per legge qualsiasi assembramento è vietato. Tahrir, ovviamente, non c’era.

«Vogliamo l’apertura immediata del confine per portare aiuti a Gaza», «La voce del popolo è ancora viva, la voce della resistenza è ancora viva», hanno scandito i manifestanti. Insieme a un altro slogan che ha un portato pesantissimo, «Il popolo vuole la caduta del regime», il grido che ha risuonato per mesi nelle piazza arabe durante le rivolte del 2010-2011.

Se il venerdì della rabbia ha legato l’Egitto (dal Cairo ad Alessandria, fino alla Penisola del Sinai) a tante altre città e capitali del mondo arabo, qui assume un senso più profondo. Perché agli slogan per Gaza, per «i fratelli e le sorelle palestinesi», alla richiesta urlata di aprire il valico di Rafah agli aiuti umanitari, si è aggiunto altro: il dito puntato contro il regime egiziano.

I manifestanti hanno chiesto di cacciare l’ambasciatore israeliano in Egitto e di stracciare l’accordo che il presidente Sadat firmò con Israele a Camp David nel 1979 (il primo trattato di pace che lo Stato ebraico ha raggiunto con un paese arabo – e non uno qualsiasi ma il punto di riferimento politico e culturale ella regione mediorientale e nordafricana). E hanno chiesto la caduta del regime di Abdel Fattah al-Sisi. La marcia di solidarietà con il popolo palestinese si è tramutata, con naturalezza, in una protesta anti-governativa.

AL CAIRO e nel resto del paese non se ne vedono da anni a causa di una sistematica repressione del dissenso e dell’annichilimento della società civile e politica egiziana (partiti di opposizione, sindacati, associazioni, movimenti studenteschi).

A dimostrazione che la questione palestinese è al cuore della stabilità dei singoli paesi arabi e detta molti dei riflessi politici interni. Lo dice la generazione di Tahrir, che si è formata ed è maturata politicamente intorno alla solidarietà alla Palestina negli anni della seconda Intifada. Quella generazione ha abbattuto un regime considerato inamovibile.