«Tahrir fu speranza, la prossima rivolta sarà guidata dalla fame»
L'Egitto del 25 gennaio A dodici anni dalla rivoluzione, è la miseria a dettare la vita quotidiana: mancano cibo e medicine. Non si trova valuta estera: importazioni bloccate, ma il regime spende miliardi in armi occidentali. Intervista all’attivista Ramy Shaath: «Il paese sta per esplodere. Ma con le opposizioni incarcerate, manca una visione politica»
L'Egitto del 25 gennaio A dodici anni dalla rivoluzione, è la miseria a dettare la vita quotidiana: mancano cibo e medicine. Non si trova valuta estera: importazioni bloccate, ma il regime spende miliardi in armi occidentali. Intervista all’attivista Ramy Shaath: «Il paese sta per esplodere. Ma con le opposizioni incarcerate, manca una visione politica»
Dodici anni dopo, piazza Tahrir ha cambiato volto. La ristrutturazione voluta dal governo nato dal golpe del luglio 2013 l’ha sfigurata. Per impedirle di rimanere quello che è sempre stata, la piazza della liberazione, l’ha tramutata in una rotonda a favore di automobilisti e il suo cuore è stato riempito di obelischi per celebrare l’impero più antico e obliare le conquiste moderne.
Intorno a Tahrir, anche la vita quotidiana è cambiata. Gli egiziani hanno fame. Così tanta fame non l’avevano avuta mai, dicono. «Costretti a diventare vegani», titolava ieri la testata online The New Arab, perché la carne costa troppo. I macellai stanno chiudendo, uno a uno. Non hanno clientela. E mancano anche i produttori: allevare una mucca non conviene più. Dodici anni dopo la rivoluzione che ha svelato l’altro Egitto, Tahrir è sempre più lontana. Almeno in apparenza. La rabbia sta montando.
Ne è convinto Ramy Shaath, uno dei più noti attivisti egiziani. Di origine palestinese, co-fondatore del Bds Egypt e volto di piazza Tahrir, festeggia un anno di libertà: è stato rilasciato nel gennaio 2022, dopo due anni e mezzo in detenzione cautelare, senza mai andare a processo. Semi-libertà: Il Cairo gli ha tolto la cittadinanza, è stato deportato a Parigi subito dopo aver messo «i piedi sull’asfalto», come dicono gli egiziani quando un prigioniero esce di prigione.
Per capire l’Egitto di oggi, non si può non partire dalla situazione socio-economica. Due terzi della popolazione vive in povertà, mentre il governo acquista un jet presidenziale da 500 milioni di dollari, spende 50 miliardi per una capitale nuova di zecca, nove miliardi per navi da guerra italiane. Potremmo continuare.
La situazione economica non sta deteriorando, sta esplodendo. Negli ultimi due mesi la sterlina egiziana ha perso il 50% del suo valore. I beni di prima necessità non sono più disponibili: riso, olio da cucina, medicinali. Non ci sono perché il 70% di ciò che gli egiziani consumano arriva dall’estero, ma nel paese c’è carenza di dollari e le importazioni sono bloccate. E quel che c’è costa troppo, alcuni beni fondamentali hanno visto un’impennata del prezzo anche del 300%. Con un budget interno che per un terzo va nei mega progetti infrastrutturali voluti dal regime, non resta nulla per sanità, educazione, sussidi alimentari ai poveri. Ma tagliare i sussidi non ha migliorato la situazione economica dello stato.
L’Egitto non produce più quasi nulla, vive per lo più delle rimesse dagli egiziani all’estero. L’unico vero export egiziano sono le persone, manodopera a basso costo che va a lavorare nel Golfo, in Europa, negli Usa, e che rimanda indietro 30 miliardi di dollari l’anno. Ma nemmeno questo basta più: l’Egitto ha un debito estero ufficiale di 170 miliardi di dollari, anche se dati ufficiosi parlano di 220 miliardi. Ogni giorno ricevo chiamate di amici, politici, familiari ancora in Egitto, mi raccontano dell’impossibilità di trovare cibo e medicine, di gatti e cani randagi che muoiono per strada perché le persone svuotano i cassonetti alla ricerca di avanzi.
Il regime ha una strategia?
Non c’è alcuna visione governativa. Il regime ha moltiplicato il debito estero, dai 30 miliardi del 2013 agli attuali 170 miliardi, a cui si aggiunge il debito interno, da 40 miliardi di dollari agli attuali 251 miliardi. Soldi che non sono stati usati a favore dell’economia di produzione, ma sono stati spesi per progetti inutili, come l’allargamento del Canale di Suez o la nuova capitale, New Cairo, il simbolo della necessità del regime di fortificarsi, di allontanarsi dal popolo così che in caso di sollevazione a proteggere il governo saranno il deserto e le postazioni militari. Progetti volti ad arricchire le imprese controllate dall’esercito che oggi detiene il 50-60% dell’economia senza pagare tasse né bollette. I generali sono diventati ricchissimi, inviano denaro all’estero in conti segreti mentre il paese affonda. E per la prima volta affondano anche le classi ricche, soffrono anche gli imprenditori privati. E non parliamo della classe media: è scomparsa, non esiste più. Esiste solo povertà.
Eppure molti paesi occidentali raccontano un’altra storia: un Egitto che è fonte di stabilità in una regione conflittuale. Può generare stabilità un regime che incarcera 60mila persone per motivi politici e affama un popolo intero?
Non c’è stabilità con la povertà e con la persecuzione di decine di migliaia di persone per le loro idee politiche. Non c’è stabilità con la censura dei media e con l’esercito che controlla l’economia. Non c’è stabilità con l’aumento del potere dell’esercito e con denaro speso per le armi invece che per la sanità e l’educazione. I governi occidentali che armano il Cairo dovrebbero fare pressioni per democratizzazione, elezioni libere, fine dell’oppressione politica, gestione equa dell’economia. Questo garantirà stabilità. Invece abbiamo un regime che compra jet da guerra americani nel mezzo della più grande crisi della storia egiziana e con nove miliardi di dollari in importazioni di cibo che non arrivano nel paese perché non abbiamo dollari per pagarle. Quando la situazione esploderà, l’Occidente ci definirà una dittatura da terzo mondo. Non siamo solo questo, siamo un colonialismo del terzo mondo, perché è l’Occidente che mantiene questa realtà di corruzione e oppressione. Tre settimane fa negli Usa ho incontrato il Dipartimento di stato: mi hanno detto che non devo riporre speranze nella democratizzazione, che al massimo si può lavorare a un miglioramento del rispetto dei diritti umani. No, grazie, non vogliamo un «miglioramento», vogliamo libertà e democrazia.
Dieci anni dopo il golpe, il regime di al-Sisi è stabile o esistono fratture interne?
Le fratture arriveranno. Oggi i servizi segreti e l’esercito appoggiano il regime perché gli garantisce potere economico e impunità. Quando questo potere economico sarà danneggiato dalla crisi economica, che inevitabilmente intaccherà anche le loro imprese, vedremo fratture interne. Affidandosi all’esercito, al-Sisi ha cercato di costruirsi una base solida. E ha posto le forze armate in prima linea, dopo decenni di potere dietro le quinte. Non esiste più una zona cuscinetto tra popolo ed esercito. La prossima sollevazione non potrà che avere come interlocutore l’esercito e non ne nascerà nulla di buono.
In tale clima repressivo le opposizioni esistono ancora?
Le opposizioni sono debolissime. Il movimento islamico è completamente distrutto e quel che resta è diviso: ci sono differenze tra i fratelli musulmani in prigione e quelli fuori, tra la vecchia e la nuova generazione. Penso sia una cosa positiva: dentro la Fratellanza ora si sollevano voci contrarie a tentare nuove scalate al potere. Questo per la prima volta potrebbe dare all’Egitto la possibilità di un cambiamento verso un governo laico, né militare né religioso. Ma non sta bene neanche la società civile: decine di migliaia di attivisti sono in prigione, centinaia hanno dovuto lasciare il paese. È difficile formare un’opposizione organizzata. Ne esiste una in diaspora che tenta di mettersi in contatto con quella interna ma è pericoloso: moltissimi attivisti in Egitto hanno paura a parlare con noi all’estero. Basta questo per essere arrestati.
Una nuova sollevazione è comunque possibile?
È certa, ma temo sarà pericolosa. Se distruggi le opposizioni, il popolo che si rivolta per fame si troverà senza una guida politica. Quella del 2011 è stata una rivoluzione per la libertà, partita dalla classe media e sostenuta da tutti i settori sociali. Aveva una chiara visione politica e precise richieste: democratizzazione, libertà, cambiamenti della costituzione. Senza uno scenario politico, il movimento popolare sarà depoliticizzato e meno organizzato, mosso da rabbia e fame invece che da speranza e visione politica. La situazione esploderà. Ed esploderà a breve. Può accadere in ogni momento. Con un’opposizione forte, l’esplosione avverrà all’interno di una rete di protezione che eviti l’abisso. Una rivoluzione guidata dalla rabbia e non dalla speranza è pericolosa. Tahrir fu bellissima perché fu guidata dalla speranza.
Tahrir ha però cambiato la società egiziana, le ha mostrato che è in grado di fare una rivoluzione.
Il popolo sarà sempre creativo e troverà i mezzi per sollevarsi. Quello che il regime ha fatto è stato colpire tutti coloro che hanno partecipato alla rivoluzione. È stata fatta dagli attivisti? Li ha imprigionati o li ha deportati. È stata fatta dal movimento islamico? Ha ucciso i suoi membri, li ha incarcerati. È stata fatta dalle ong? Le ha chiuse per decreto e confiscato il loro denaro. È stata fatta su internet? I servizi hanno intensificato il controllo di massa dei social. È stata fatta nei luoghi di ritrovo dei movimenti di sinistra e degli intellettuali? Ha chiuso i café, le librerie, i luoghi culturali. Ha preso di mira qualsiasi spazio potesse rappresentare un luogo di dibattito politico. Ha riorganizzato piazza Tahrir per rendere difficile manifestare. È un modo stupido di ragionare, è quello dell’esercito e dei servizi. Non hanno capito che quando le persone vogliono ribellarsi, troveranno un modo per comunicare e per ritrovarsi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento