Sulla spiaggia di Cutro, dove il dolore diventa rabbia
Li hanno visti arrivare Nel naufragio hanno perso amici e parenti, ora puntano il dito contro il governo: «Ci sta trattando come facevano i talebani». Le voci dei familiari delle vittime e il groviglio di sentimenti che sfila in corteo
Li hanno visti arrivare Nel naufragio hanno perso amici e parenti, ora puntano il dito contro il governo: «Ci sta trattando come facevano i talebani». Le voci dei familiari delle vittime e il groviglio di sentimenti che sfila in corteo
È un groviglio di dolore e sdegno il sentimento che sfila per le strade di Steccato di Cutro. Le case estive restano vuote mentre in questa ventosa giornata di marzo le strade si riempiono di gente. Così tanta tutta insieme da queste parti non deve essersene vista mai.
Il groviglio è più forte nello stomaco di chi è partito dal PalaMilone di Crotone, dove ieri pomeriggio erano ancora allineate 33 bare: 27 marroni e 6 bianche. Sopravvissuti e parenti delle vittime si sistemano in mezzo al corteo, insieme ai volontari e agli attivisti che più gli sono stati vicini nei tredici giorni successivi al naufragio. Insieme hanno pianto. Insieme hanno lottato. Adesso insieme tengono lo striscione: «Rete 26 febbraio. Mai più stragi di migranti nel Mediterraneo».
«TUTTA LA FAMIGLIA di mio cugino è stata distrutta. Lui è ancora disperso. Hanno ritrovato i corpi della moglie, di una figlia e di due bambini», racconta Haris Yosufi. Il giorno della strage ha ricevuto la chiamata di un parente afghano. Senza conoscere il destino dei suoi cari ha preso il primo aereo. Da Sidney, dove vive. «Faccio domande ma non mi danno risposte – continua – Voglio solo ripartire dopo aver trovato mio cugino e una sistemazione per tutti i corpi. Devo farli arrivare a Kabul. I primi tre dovrebbero partire lunedì. Dicono che pagheranno tutto loro ma finché non succede è difficile crederci».
«Loro» sono le autorità italiane. Il corteo le accusa non solo dei soccorsi mancati, ma anche della mancata gestione di quello che è venuto dopo. Non è stata creata una cabina di regia, le informazioni sono sommarie e a volte contraddittorie, sulle salme resta troppa confusione, i sopravvissuti non sono accolti come merita chi ha subito una simile tragedia.
«LA MOGLIE DI MIO FRATELLO era su quella nave. È partita dall’Iran, anche se è di nazionalità afghana. Il suo corpo non è ancora stato ritrovato. Le ricerche vanno a rilento. Sono passate due settimane e mancano ancora troppe persone», dice Hassan Kazimi. In Calabria è venuto dalla Finlandia, dove lavora da alcuni anni. Non può andarsene senza quel corpo da seppellire. Insieme a molti altri chiede che il caicco affondato, o ciò che ne rimane, sia tirato fuori dall’acqua. Un uomo ha proposto di pagare una gru per provarci, ma gli hanno detto che non è possibile.
Il corteo scorre e il groviglio cresce. La testa è in silenzio, in coda si alzano cori contro il governo e le stragi in mare, che tutti chiamano «stragi di Stato». Davanti allo spezzone dei familiari due altoparlanti danno voce agli interventi. Qualcuno tiene alto il cellulare, collegato in videochiamata con i parenti in Afghanistan o altri paesi lontani: i volti dentro lo schermo osservano la manifestazione come da un altro mondo.
A POCHI METRI dalla spiaggia maledetta il groviglio diventa un nodo. Gli ultimi passi sono in completo silenzio, poi dopo un accenno di dune si vede il mare che ha inghiottito decine di vite. Solo poche ore prima ha restituito gli ultimi due corpi. Di bambini.
Intorno agli altoparlanti si forma un cerchio composto. È il momento di una preghiera, cantata in arabo. Quel suono sullo sfondo di quel mare strappa singhiozzi anche a chi non capisce le parole. Chi può stringe la persona che ha accanto.
IL NODO SI SCIOGLIE. Prevale lo sdegno, che si trasforma in rabbia. «Davanti alle bare sono venuti a piangere con noi bambini, studenti, mamme, nonne. Li ringraziamo. Ma non è venuto il primo ministro, non è venuto il governo. Non ci hanno portato le condoglianze e il sostegno che aspettavamo», afferma Jamashidi. È riuscito a fuggire un anno fa dall’Afghanistan e ad arrivare in sicurezza con i corridoi umanitari. È un fiume in piena, ha dovuto riconoscere oltre 30 vittime con le foto che gli hanno inviato i conoscenti o gli amici degli amici.
«L’attuale governo italiano si sta comportando con noi come facevano i talebani», attacca. Sono parole dure come pietre, il traduttore ha bisogno di ripeterle due volte. La proposta della premier Meloni di incontrare a Roma i familiari è rispedita al mittente. L’ennesima toppa peggio del buco.
Prima di lasciare la parola agli attivisti, una donna con il capo avvolto dal velo torna sul pensiero che continua a frullare nella testa di molti: il relitto. «Temiamo ci siano altri corpi dentro», dice. E lancia un appello: «Non ci lasciate soli fino a quando l’ultima persona sarà recuperata. Alzate la voce con noi».
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