«Questa strada la chiamo la strada della vita», spiega Igor mentre spingiamo sull’acceleratore per stare dietro alla vecchia auto del suo caposquadra lanciata a tutta velocità nonostante le buche. «Perché per quasi un mese ho visto passarci migliaia di persone disperate che scappavano da Kherson e che quando arrivavano qui iniziavano a sentirsi salvi».

Igor è un militare trentunenne, ha studiato archeologia del paleolitico, per un periodo anche alla Ca’ Foscari di Venezia, poi ha iniziato a lavorare come tecnico informatico perché «si guadagna bene» e appena è scoppiata la guerra si è arruolato nell’esercito, per scelta.

PARLA CON TONI altisonanti della difesa della democrazia dalla barbarie, dell’appartenenza al territorio e della santa causa dell’Ucraina che sta combattendo non solo per sé stessa, ma per tutta Europa. Nulla di nuovo, dal 24 febbraio di discorsi simili ne abbiamo sentiti dovunque e da chiunque.

Il dato principale che ne riportiamo oggi è che il morale, almeno sul fronte sud, è ancora alto. Nonostante la stanchezza, nonostante la paura e nonostante i bombardamenti costanti. Mykolayiv non è Odessa, qui tutti i giorni, spesso per diverse ore di seguito, rimbombano nell’aria i boati delle esplosioni.

I pochi passanti alzano la testa e tirano dritto, anche perché ormai le sirene suonano solo se l’attacco sembra rivolgersi all’area urbana. Per i villaggi a est e a sud e per le periferie industriali non c’è più tregua e qui la parola «fronte» assume il significato che gli è proprio.

Del resto, l’abbiamo spiegato, non è facile orientarsi sulla mappa di questa parte dell’Ucraina. Ieri mattina, ad esempio, dalla pagina Facebook delle forze armate è stata diffusa la notizia che ben undici villaggi nella zona tra Kryvyj Rih e il Dnipro sono stati riconquistati negli ultimi giorni.

EPPURE CI SONO due battaglioni russi, più o meno tra i 4 e i 6mila uomini che dovrebbero essere nella stessa zona dopo essere stati respinti da Kryvyj Rih quattro giorni fa e aver ripiegato verso sud.

Si tratta di una guerra combattuta parallelamente sul campo e sui media, l’abbiamo detto fin dal primo giorno, e oggi continuiamo ad averne certezza. I due stati maggiori sanno che le notizie sono il carburante dell’umore della propria opinione pubblica e non c’è spazio per ambiguità.

Ogni mossa ha delle conseguenze calcolate, sperate, spesso rincorse finché la realtà non fa scoppiare le bolle. E a volte queste bolle scoppiano con il fragore delle bombe, come a Mariupol, a Kharkiv e a Mykolayiv, altre volte svaniscono nell’aria lasciando qualche macchia visibile solo per pochi secondi.

E poi c’è la pressione psicologica, che è del tutto reale. Sottile e costante ha invaso la maggior parte delle città ucraine e assume diverse forme. In questi ultimi giorni, tuttavia, la paura dei bombardamenti dal mare ha preso il sopravvento.

Si è visto con il palazzo dell’amministrazione regionale di Mykolayiv che è stato centrato in pieno da un missile Kalibr lanciato dal Mar Nero. Si è visto anche con la notizia delle navi russe ancorate nel porto militare di Sebastopoli per rifornirsi di missili, che ha avuto un’eco inattesa sui giornali ucraini, spesso parchi di notizie che potrebbero spaventare la popolazione.

SI VEDE A ODESSA, ogni giorno, con il rafforzamento delle trincee sulla spiaggia e l’aumento delle restrizioni in riva al mare, nonostante le progressive riaperture nel resto delle aree cittadine.

Però gli ucraini non cedono un centimetro. Di là da ogni retorica, i combattimenti hanno assunto davvero un accanimento inatteso, sia, sembra di capire, per l’esercito invasore, che non si aspettava una risposta così decisa e organizzata; sia per gli ucraini stessi che ti guardano come a dire «non vi aspettavate che resistessimo così tanto, eh?».

In questa parte di mondo la guerra ci ha fatto tornare indietro nel tempo. Si combatte con gli schieramenti a pochi chilometri l’uno dall’altro e i turni di guardia sono consumati nelle postazioni di tiro pronti a far fuoco in caso di un assalto ravvicinato.

Le pattuglie notturne ingaggiano sparatorie con le avanguardie nemiche per tenere una semplice curva dell’autostrada, magari solo perché il rettilineo seguente non offriva alcun riparo naturale e sarebbe costato chissà quanti uomini e mezzi riconquistarlo (ammesso che si fosse riuscito).

PER LO STESSO MOTIVO le carcasse dei mezzi incendiati vengono lasciate sull’asfalto per essere usate come ripari dai colpi nemici. Giorno e notte si scavano trincee, nelle postazioni occupate dai russi come alle porte delle città ucraine. Migliaia di uomini, in questo momento, stanno scavando la terra per potervisi appostare con un’arma in mano, in attesa.

Si sparano Grad a pioggia senza mirare con sofisticati software di intelligenza artificiale ma per colpire e terrorizzare il più possibile. Si ammassano i corpi dentro e fuori dagli obitori, per terra, coperti male o per niente.

Si chiama qualche vicino o amico per tappare le finestre e i muri delle case di campagna abbattute, per evitare che i ladri si prendano il poco rimasto. Si rimane per settimane senz’acqua o senza elettricità, senza cibo e senza medicinali.

Tutto ciò, oltre ad averlo visto e in parte vissuto, ce lo ha raccontato Igor, parlando della sua vita sotto le armi e della sua famiglia rimasta oltre il Dnipro che non riesce a contattare da due settimane. «Non sono riuscito neanche a fargli arrivare l’insulina che gli serviva tantissimo».

Racconta che si erano accordati con i russi di Cherson per far passare una sola macchina, guidata da una donna, e carica esclusivamente di medicinali. «Neanche questo hanno permesso», conclude sconsolato mentre indica il punto esatto dove un missile ha colpito il cortile di alcune case popolari e i danni sulle facciate causate dalle schegge. Qui l’attacco è avvenuto il 7 marzo, fino a una settimana fa non sono riusciti a ripristinare le forniture idriche.

CONTINUIAMO sulla strada che porta a Lupareve, la macchina che ci precede corre e ha le quattro frecce accese quasi tutto il tempo. I militari dei posti di blocco ci fanno passare senza chiedere nulla e Igor ci dà delle indicazioni costanti, ripetendo di copiare ciò che fanno davanti. Superato un ulteriore check-point si raccomanda «se le cose vanno male, fate quello che vi dico».

Aggiunge anche un sincero «andrà tutto bene». Arriviamo all’ultimo avamposto ucraino a sud di Mykolayiv, «a tre chilometri da qui combattono da settimane». Pochi soldati in una casa colonica mangiano una zuppa mentre nell’aria vibrano i colpi d’artiglieria. Hanno almeno cinquant’anni a testa e hanno le facce stanche, a malapena salutano.