Le sue origini stanno nel punto d’incontro tra i western televisivi alla The Big Valley anni sessanta e Dallas. Ma Yellowstone non sarebbe mai stato possibile nell’era pre-The Sopranos, prima cioè che il serial televisivo diventasse, allo stesso tempo, più ambiziosamente cinematografico e più ambiziosamente romanzesco. Gli autori di questa nuova sontuosa e cupissima soap opera western, prodotta dalla Paramount TV, sono Kevin Costner e Taylor Sheridan. Se lo sceneggiatore/regista di Hell or High Water e Wind River firma i copioni e la regia di tutti i dieci episodi di questa prima stagione (già confermata la seconda), Costner – produttore esecutivo e protagonista – porta a Yellowstone, insieme all’ outline dinoccolata e alla sua «ritrosia americana», così perfette per il western, un bagaglio politico culturale (Ballando con i lupi, ma non solo: tutto il suo cinema dialoga con il mito Usa) che rende questo intricatissimo squarcio di Frontiera del terzo millennio ancora più interessante e stratificato.

Lo sfondo è quello delle sterminate distese del Montana, un paesaggio splendido e duro allo stesso tempo -come quello che fa da teatro a I cancelli del cielo, ambientato nel limitrofo Wyoming. Sheridan conosce bene la storia americana e quella del western ma, come anche in Wind River, la sua epica, molto più minimal di quella di Cimino, è venata di realismo sociale radicato nel contemporaneo. Tra lo spettro passato del genocidio dei nativi d’America e quello futuro dell’invasione di villaggi residenziali per nuovi ricchi smaniosi di un’esperienza western dotata di tutti i comfort (immaginare bisonti molestati da palline da golf e corsi d’acqua prosciugati a favore di piscine, jacuzzi e praticelli inglesi), Sheridan pennella i conflitti classici del western, quello con gli indiani e quello per la terra; insieme all’ambivalenza storica di questo paese nei confronti della «civilizzazione». Un’ambivalenza di attualità tragica in questo momento.

John Dutton (Costner), taciturno, tormentato, inflessibile, terrorizzato dal mondo aldilà dei suoi recinti e stregato dalla morte di una moglie giovane, è il potentissimo padrone del ranch più esteso e importante d’America, lo Yellowstone del titolo; è anche il patriarca di una famiglia così disfunctional da dar dei punti a quella degli Ewing. Lo incontriamo, all’inizio del primo episodio, mentre spara in testa a un cavallo rimasto coinvolto in un incidente d’auto. «Ti meritavi di meglio», dice accarezzando il capo del magnifico animale sofferente, prima di ucciderlo – l’orribile groviglio di lamiere lì a fianco una metafora del futuro che minaccia il suo mondo.

I risultati della scarsa vocazione paterna di Dutton si vedono molto chiaramente nella sua prole (il tocco made in 2018 della serie include dietrologie impensabili nei western tv anni sessanta – ma fortunatamente Sheridan è abbastanza parco nell’aspetto psicologico/confessionale). Jamie (Wes Bentley) è un avvocato con zanne affilatissime e ambizioni politiche, che passa la maggior parte del suo tempo a proteggere gli affari del ranch. Anche Lee (Dave Annable) – il Fredo dei Dutton – ha dedicato tutta la sua vita all’impresa di famiglia, ma in posizione più secondaria, fianco a fianco con i cowboys. Mentre Kayce (Luke Grimes) ha cercato di darsela a gambe dall’inevitabile risvolto shakespeariano della premessa, sposando un’indiana e andando a vivere nella riserva. Già dal primo episodio si capisce che la fuga non è servita a molto – è nel suo personaggio contradditorio, diviso, che si filtra gran parte della complessità drammatica del plot. E, sotto sotto, – tra i figli Dutton- il giovane ribelle è quello in cui papà si riconosce maggiormente.

Nel mezzo di questo universo, prepotentemente quanto crepuscolarmente, maschile (che aldilà dei legami di sangue, include per i cowboys la possibilità di legarsi ai Dutton per sempre con un marchio stampato sulla carne, come una mucca), Beth (Kelly Reilly), avvocato anche lei, che cura le cicatrici di una colpa insormontabile divorando uomini e bevendo quantità industriali di whisky, si staglia con grandiosità camp, e il potenziale distruttivo di un disastro ferroviario. A questo cast di personaggi principali, Sheridan aggiunge un nuovo capo indiano (Gil Birmingham), ambizioso e scaltro, deciso a sfruttare a suo vantaggio il nuovo vento del politically correct, ed è spietato quasi quanto Dutton sr.; un untuoso imprenditore che sta per la rapace cecità del progresso (Danny Huston) e un corollario di rancheri, poliziotti indiani, politici/politiche locali, mogli ed ex, che arricchisce la texture.

Le gloriose, mute, praterie che sputano cadaveri come in un film di George Romero, Yellowstone (già criticata perché gli manca il tocco femminil/revisionista di Godless), ha un bel feeling complesso, austeramente doloroso senza essere elegiaco; nonostante alcuni cliché o punte di ridicolo (come la questione del marchio). E sta diventando più avvincente mano a mano che si va avanti